DONATO DI STASI

Cenni biografici

Nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico "Vincenzo Pallotti" dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l'Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un'intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell'Università di Bari, per l'Università del Sacro Cuore di Milano e per l'Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato "Storia della Chiesa" presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l'Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d'Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L'oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti) dalla quale sono tratte quelle di seguito riportate.

Donato Di Stasi

 

Da "L'amore tolemaico"

Troia dalle porte chiuse:

la vita è cresciuta, invecchia la morte

(Parlano Odisseo e Telemaco)

ODISSEO

Non ricordo, Telemaco, la guerra, perché non torno.

Un tempo aspettavo finissero i mesi:

se i troiani spargevano la pioggia,

indovinavo l’inciampo dei cavalli.

Giorno dopo giorno noi perdevamo gli anni,

tutte uguali le stagioni senza combattere.

Non è stata Troia il mio destino,

ero già prigioniero del nome.

Solo gli dèi hanno viaggiato così a lungo

e a questo ci puniscono.

Dentro il mare il tormento cresce libero, puro

non ti abbandona mai, non mi abbandonano i tuoi occhi

senza colore, la voce, marea dell’anima che afferra le cose

e invoca padre, padre migrato in uragani.

Qui tra onde inzuppate d’azzurro, l’acqua è vuota:

nulla trasforma il mare come l’assenza di terra.

In una pianura senza sera, nel chiarore lunare

una lampada infantile si chiude alle spalle la porta di casa:

un mondo favoloso di abbracci, un diffuso tepore di guance.

TELEMACO

Desidero amare un padre mai visto.

Fa' che partendo tuo figlio incontri salvezza.

Guarda ogni notte nel mio sonno e inventa

un prodigio e che io sia beato rannicchiandomi nella tua mano.

I cavalli delle onde gonfiano di poco vento

come se il destino tenesse ferme le vele.

A me padre togliesti la bocca,

hai benedetto il mio silenzio fino all’incontro.

ODISSEO

Passerà la tua giovinezza, non sarai figlio per sempre.

Ha dato tutto la vita, sacrifica la sua sconfitta.

Chi ricorda i prati che si smaltavano al sole?


Sonetti a Ettore

(Parla Andromaca in ogni secolo)

 I

E tu immutato amore sei il campo cancellato

e bellissimo della fronte discesa da Omero.

A chi narrare i tuoi occhi germogli di stelle,

le tue ginocchia piegate nell'aratura nebbiosa una sera:

in quale notte vaghi, in quale pietra ti ha spogliato la morte.

A chi ripetere il nome nutrimento con le vocali chiuse

riempite di terra, mentre sui poggiatesta di questa corriera

finisce il rumore del mondo e fugge questo mio inutile andare.

Toglimi le lacrime, Ettore, senza nostalgia

ridiventa desiderio, disfa il nero

ma in questo vuoto riappaia segno di te,

come l'acqua che corre a offrirsi alla sete.

Riposati al pane delle montagne, spietato ripetuto

amore dai piedi piagati, impugnando il sangue.

 II

Se tutto è solo un continuo fuggire

di te niente rimane, nemmeno sollevarsi alla luna dei ricordi.

Spossato dal suo spumeggiare, il vento afferra di colpo i gabbiani

torcendoli in carne di stridi per sbatterli sulla scogliera.

E la fine dell'anno, sembra il finire della terra.

T'avesse a Troia agito sul cuore egida celeste

a te arderebbero fregi non ai pelìdi: non verrei

in ogni strada a implorare il nostro primo giorno nel mondo

il luminoso stupore delle mani, la sabbia calda

lavata dal seno, i tuoi pochi anni.

Se lo spazio della solitudine si sottraesse mai,

mi fermerei solo con le palpebre che tu sfiorasti,

il viaggio non si addenserebbe in parole di supplizio,

l'amore ancora esisterebbe.

 III

Combatti per te stesso come le parole

contro le menzogne dei sensi e le lacrime logore.

Avvicinati ancora una volta al parlare,

puoi sfiorarmi le labbra e raccoglierne i suoni

seminarli a grappoli nella tua gola chiusa.

Parlerai nel dondolio delle corolle

non del vero, dei cavalli che amavi.

Dove ti trovarono, il tuo corpo ai piedi del mondo,

irrompono sapori di more, varcano i rovi

e la traccia del greto combattuta mille volte

e il tuo cammino nella voce di quel febbraio

delle ceneri, la fronte imprigionata a un invisibile marmo.

Tutto ti annuncia, le montagne riprendono a crescere

la luna oscura la stazione, il tuo passo e ne fui innamorata.


Da "Il viaggiatore immobile"

Cuma

A Odisseas Elitis

Fermo da secoli il mare

nessuna melodia, niente di celeste

più niente di Venere gli resta dentro.

Arenato nel suo canestro

il mare sopra di me:

il suo miracolo è un fiore di sale,

il suo odore perforato di luce

il diritto di crescere la morte.

Le onde più antiche si consegnano alle spalle,

i baci di Didone entrano uno nell'altro sulle labbra:

tutta l'anima trema nella crisalide azzurra.

Quale isola se ne va nei libri e le sillabe d'acqua ritornano

profumo, ulivi, e come sono belle le statue dove scendono gli dèi.

Uno scrittore miceneo avanza tra spruzzi ciechi,

la metrica più commovente non è legge all'universo,

non risparmia il dolore dei versi.

Continui rintocchi di cupole dal si bemolle al sol.

Una bara bianca all'aria aperta continua le case della lingua greca.

Al mare immobile si bagnano le parole dell'amarezza.

La strada azzurrata. L'ignoto.

Le pietre e i marmi ondeggiano nel nulla.

 

 


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