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DONATO LINZALATA SAGGISTICA Le voci di legno degli Dei lucani - Intervista a cura di Raffaele Nigro |
Genzano: la casa è al limite della campagna e oltre il giardino e il muro di cinta ci sono gli orridi e poi le colline che vanno a morire sull'altopiano, tra Puglia e Basilicata. Il pomeriggio è come il volpino che si è addormentato sotto le ruote della mia auto, in una nuvola di moscerini che attraversa il giardino, lo spiazzo, i rampicanti e si perde oltre il fabbricato. Donato ha aperto il cancello antistante lo spiazzo e la casa, mi aiuta a parcheggiare, festoso, mi invita a prendere possesso della villa, dello studio a pianterreno.
Non ho fretta e affondo in una sdraia, parliamo della stagione e dei lavori che ancora il giardino richiede. Ma Donato dirotta costantemente il discorso sulle nuove sculture, verso la mostra che ha in preparazione.
Alza la voce per chiedere a Franca, la moglie, che porti giù il vino, tanto, almeno per il momento ci accamperemo qui, all'aperto. Ho posato gli occhi sulle due cataste di legna che delimitano il viale.
"Ho vissuto a contatto col legno fin da ragazzo -approfitta Donato-. Mio padre era carpentiere, costruttore di traini e lavorava con l'ascia. Adoperava il faggio, la quercia e soprattutto l'olmo. Legname che si trovava in zona e che veniva prima spaccato e poi fatto stagionare. Ecco, ho cominciato proprio col legno, nel '62, prima di iscrivermi all'Istituto d'Arte, a Bari".
"L'Istituto d'Arte?"
"Mi piaceva disegnare. Per la verità in famiglia c'era un cugino di mio padre che viveva in America e aveva fatto fortuna come scultore. Invece un fratello di mio padre era molto bravo come vignettista e illustratore. Disegnava per proprio piacere, lo lo osservavo, ne ero incuriosito, invaghito".
"A Genzano c'erano scuole o botteghe?"
"C'era Carmine Delle Donne, un bravo ritrattista che imitava Fattori, i Macchiaioli. Aveva un emporio ed esponeva i suoi quadri in vetrina, tra caramelle e dolciumi. Più volte da ragazzo gli chiesi se intendesse darmi lezioni ma era anziano e diceva di non 'avere la testa'. Non aveva pazienza.
"Che soggetti dipingeva?"
"Paesaggi. Era un figurativo, un realista, ma con molta freschezza. In paese godeva di molta considerazione. Ci sono famiglie che conservano ritratti realizzati da lui e altre che hanno i suoi paesaggi".
Il volpino si è appena svegliato. Pigramente si accosta al cancello, abbaia contro le macchine che salgono dal fondovalle. Franca si è affacciata alla soglia dello studio, con un vassoio di bicchieri, di focacce, di salumi e una bottiglia di aglianico. Festosa, appoggia su un tavolo, si precipita a comunicarci la sua allegria, di subita simpatia com'è.
"Ti iscrivesti a Bari, allora..."
"Si, perché Genzano era lontana e significava viaggiare per quattro ore al giorno. Avevo quindici anni..."
"E avevi cominciato a dipingere in proprio..."
"Dipingevo e disegnavo molto".
"Ti affascinava già qualcosa?"
"La scultura romanica, il simbolismo dei capitelli e dei fregi delle cattedrali, Nicola e Giovanni Pisano. E poi la scultura mediterranea proveniente dall'Egitto e dall'antica Grecia".
"Più la pittura o la scultura?"
"La scultura. La sentivo più vicina a me".
La porta dello studio è rimasta aperta alle spalle di Franca. Dall'ombra dell'interno emergono spuntoni di totem e macchie di colore espressionisticamente schiaffeggiate contro le tele. Sembra una fucina, o una fonderia, tra fantasmi di legna e di vernice.
"A scuola, tra i compagni, ricordi qualcuno in particolare?"
"Antonio Paradiso. Eravamo di corsi diversi ma ci frequentavamo. Mario Colonna, che oggi è direttore dell'Accademia di Belle Arti di Bari. Antonio Bibbò, che veniva in ore di supplenza".
"E fuori dalla scuola?"
"Frequentavo lo studio di Mario Ferretti, al castello Svevo. Era un fiorentino legato a una scultura neoclassica. La Sovrintendenza gli aveva concesso una stanzetta a piano terra e nel tempo libero lui vi andava a lavorare".
"Dopo l'Istituto?"
"Mi iscrivo a Napoli, all'Accademia di Belle Arti e scelgo la sezione di Emilio Greco. Ricordo Augusto Perez, suo assistente. Ma io non amavo la loro scultura, perché era fatta di forme classiche, di linee troppo leccate. lo sentivo un bisogno di scultura libera, irruenta, meno elaborata. Più espressiva e di getto. E abbandonai. Debbo dire che lavoravo d'estate per mantenermi agli studi e non potetti continuare più di tanto".
Beviamo questo vino robusto come un tronco di noce. L'aria è calma e il volpino è tornato a dormire. Anche Franca è ridiscesa, si è sistemata in una sdraia e osserva i gerani, si rialza, attinge acqua da una fontanella, innaffia, mentre interviene nel nostro dialogo per dirmi che Donato se ne tornò a Genzano, che male fece a tornare, perché un artista non può vivere in provincia, che restare al Sud è come vivere nella provincia della provincia, dunque nel fondo di un pozzo. E conclude: "Vinse subito un concorso per l'insegnamento ed entrò nella scuola".
Ma Donato corregge: "Mi liberai del servizio militare, che feci a Roma e che mi fu utile perché ho potuto seguire molte manifestazioni artistiche della capitale. Frequentavo delle gallerie, La Barcaccia, La Russo. Nel '68, tornato a casa, cominciai a frequentare Matera, La Scaletta. Conobbi Guerricchio, che insegnava a Bari e faceva il pendolare. Nel frattempo non mancavo mai da Venezia e dalle Biennali, perché se decidi di vivere in periferia non puoi isolarti dal mondo".
"Chi c'era alla Scaletta?"
"Ricordo Franco Palumbo, che mi propose di tenere una mostra, la mia prima mostra nei Sassi. Josè Ortega a cui piaceva molto la mia scultura".
"Allora -interviene Franca- Donato realizzava figure umane a grappoli, ma in una forma espressionistica".
"Si, avevo bisogno di far uscire dal legno figure drammatiche. La civiltà contadina e i drammi esistenziali. A Matera si parlava molto di Levi e Scotellaro. lo ne avevo sentito parlare già dagli anni sessanta".
"Levi lo hai conosciuto?"
"Lo vidi una sera a Matera, in un incontro della Scaletta, ma non ho avuto rapporto con lui. A differenza di altri intellettuali che ho conosciuto da vicino, dopo che mi ero iscritto alla Scaletta. Ho conosciuto De Libero, Sinisgalli, Rafael Alberti, Appella, Nino Palumbo, Mino Maccari".
"Con Sinisgalli avemmo un bellissimo rapporto" spiega Franca, mentre da di mano alla scopa, ammonticchia i petali di geranio sparsi sul pavimento. "Lo conoscemmo durante una mostra di Consagra -precisa Donato- non ricordo l'anno". E Franca è pronta a ricordare che fu tra il 75 e il 76. Che si stava pranzando in un ristorante di Matera e si discuteva di scultura, quando Sinisgalli invitò entrambi a Montemurro.
Come coppia sono molto affiatati e coltivano un sentimento che si sostanzia di valori creativi. "Ci andammo due volte, d'estate, -riprende lui cercando negli occhi della compagna una conferma ai ricordi- perché lui saliva solo d'estate. Ce ne stavamo nel suo studio a discutere, io gli regalai una scultura in legno che lui battezzò "II gallo cedrone". Gli piaceva la semplicità di realizzazione e soprattutto l'espressività. Si incuriosì al punto che mi chiese di venire qui, a Genzano a visitare il mio studio. Ma due mesi dopo la moglie si ammalò. Sarebbe morta di lì a poco, per cui lui non ha più mantenuto la promessa. Però a Roma, guardandosi il gallo cedrone, fu ispirato al punto che scrisse due poesie e me le mandò spiegandomi per telefono che mi regalava ciò che poteva, la sua creatività e il suo affetto. Era di un temperamento forte e dinamico. Quando vide una mia mostra al Seminario di Potenza, nel 77, si lamentò del fatto che poco fosse stato fatto dalle istituzioni locali per impormi. "Fanno fuggire la gente -disse-. Come a Matera che non mi hanno mai amato". Mi abbracciò, disse che sarei stato uno scultore importante ma occorreva che qualcuno mi aiutasse.
E lui mi prometteva di intervenire. Un aiuto che non ci fu perché sei mesi dopo morì d'infarto".
Franca ora si è allontanata. Sparita nella bocca dello studio con un mazzetto di basilico fresco. Ha deciso che mangeremo per cena spaghetti alla crudaiola e ha lanciato un piccolo grido quando ha guardato l'orologio. Ha dato appuntamento per le diciassette ad alcuni colleghi di scuola, lavorano insieme alla riduzione di un testo sul brigantaggio, intendono trame uno spettacolo teatrale. Ma questa sera saranno qui solo per festeggiare l'amico scrittore, per cena.
"Tra gli artisti lucani chi hai frequentato?"
"Guerricchio. Venne molte volte a Genzano. Era un rapporto leale. Mi rispettava come scultore, perché avevo trovato una mia strada. Credeva nel mio linguaggio".
"Avete fatto mostre insieme?"
"Si, diverse volte, io di sculture e lui di dipinti. Ne abbiamo fatte a Maratea, a Roma, una a Matera, a Villa Tarantini, una a Gravina organizzata da Anna D'Elia, una mostra itinerante per molte città d'Italia. Mi stimava anche come pittore, perché non imitavo, non copiavo. Mi invitava ad andare avanti nonostante la scultura fosse dura da praticare e da vendere".
"Sentivi la tradizione pittorica lucana?"
"Ad Avigliano c'erano i Claps, non di più".
"E della tradizione nazionale?"
"Mi interessavano Burri, Giacometti, Balla. E negli anni '50, Henry Moore, Guttuso per colori".
"Ti occupavi di cultura popolare?"
"Attraverso mia moglie che studiava antropologia. lo ho letto negli anni settanta molto di Ernesto De Martino, di Levi, di Giambattista Bronzini. Franca aveva una tesi su Magia e canto popolare nell'alta Basilicata".
"Il totemismo è nato allora?"
"No, prima. Perché io avevo sentito il bisogno di liberarmi dalla figurazione realistica e ricorsi alla stilizzazione e al simbolismo, per cui scoprii le culture primitive mediterranee con le figurazioni della Grande Madre Mefite, le Veneri africane. Con Franca ci siamo influenzati a vicenda".
"Ricordo che innalzavi alberi e rifuggivi dalle piccole sculture".
"Era il trionfo della materia nello spazio. Una materia che tende verso il cielo, come gli uomini, che si interrogano e cercano risposte. E nel totemismo io stigmatizzavo l'unione tra soggetti, maschio e femmina, raffiguravo l'amore, i simboli della tentazione e del desiderio".
"Poi sono venute le prime mostre e i primi critici".
"Si, Rino Cardone, Toti Carpentieri, Anna D'Elia, Santa Fizzarotti, Maurizio Marini, Tommaso Trini, e altri stimatori: Peppino Appella, Enrico Crispoldi, Marcello Venturoli, Luciano Caramel. Cominciavo a fare personali fuori regione, all'Expo arte di Bari, all'Arte-Roma '90 e '91 per gli scultori giovani, al Museo Pagani di Castellanza e poi sempre più lontano, a San Paolo del Brasile al museo Osasco, a Ginevra".
"Questa scultura la sentivi legata alla Lucania?"
"Si, perché il paese non decollava. Aveva una forte spinta contadina. C'erano magia, malocchio, superstizione. E io intendevo raffigurare tutta la cultura subalterna del mio paese dove mancavano i grattacieli e la gente li guardava in televisione affascinata e smarrita. Per cui ho sentito negli ultimi anni il bisogno di interrogare il territorio e far vivere le mie sculture nelle contrade lucane. Sono nate le Veneri di Machino, Menhir di Monteserico, i totem di Festula".
Mentre cita queste contrade si alza e indica i luoghi, sulle colline circostanti. Qualche rondine taglia a sghembo il giardino.
"Certe volte vorrei riempire quelle colline di totem. Tante pietre lavorate per lasciare una traccia della nostra cultura millenaria".
"Già -ribadisco con una punta di giocosità- una cultura che ha saputo produrre questo vino e queste salsicce".
Un claxon annuncia l'arrivo di una utilitaria. L'auto si ferma sulla soglia del cancello e Donato si fa incontro agli amici. I colleghi di Franca, le persone che aspettavamo.
"Se non hai niente in contrario, -dice rivolto a me, ravvivandosi i capelli lunghi e lisciandosi i baffoni- io mi fermerei qui, per stasera. E' una garanzia per rivederci ancora. E poi la crudaiola non ammette ritardi".
"No, non ammette ritardi" concludo, con l'ultimo sorso di aglianico.
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