DONATO LINZALATA

SAGGISTICA


axis mundi, un popolo - Tommaso Trini

E’ il senso di unione, il moto che circola nelle venature dell'arte di Linzalata. Avvicinarsi alle sue sculture induce anzitutto a toccarle, a carezzarne la natura lignea, a cercarne la filigrana arborea. Lo sguardo travalica le singole opere per abbracciarle tutte nell'orizzonte di un'etnia a se stante, una specie linguistica presso cui sostare. Di un'opera d'arte che itera l'albero, il menhir, il totem; che è vertebrata da alcuni decenni sulla verticale tra il basso e l'alto; che si spoglia di scorze e superfici per denudare essenze; di quest'arte ci attirano le linfe più intime.

Dalla scultura di Donato Linzalata si propaga la forza della totalità che fluttua nei frammenti. Osserviamola, pur non essendo rabdomanti, lungo alcune stupende steli a crociera del 1991, anno di grazia per l'artista e di capolavori (visibili in mostra, spero, o su queste pagine). Sono intagliate tra due legni posti ad incastro. Sono diverse nel loro stile tribale pur se omogenee nella struttura. Nella crociera si inscrivono, allo stesso modo, tanto una nascita quanto una morte o un portamento. Così, la Maternità in cui una madre filiforme culla il figlio, è sbalzata nel cerro con asprezze africane, anzi cubiste, care a Picasso; mentre la stessa scena e poi tornita nel pino con fattezze precolombiane, quasi barocche, non estranee a Brancusi. Ma basta sollevare l'incrocio sulla testa della Portatrice di pane, egualmente purista, affinchè la stele ritrovi le mollezze dell'Oceania scoperte da Gauguin. Lo stessissimo impianto consente poi una Deposizione in castagno col frastagliato grafico che può rimandare ai surrealisti, a Wilfredo Lam. L'identità plurivoca dell'opera, come si vede, sta nella struttura, non nei segni; nel pensiero visivo, non nello stile. Ne consegue dunque che, prima di applicare a Linzalata il comodo sfondo dell'arcaismo o del primitivismo, conviene riconoscergli un principio molto più personale e pregnante, anzi due. E' il principio dell'originaria dialettica tra la frammentazione e il tutto, il dilemma che sostiene la sua arte. E l'esercizio che la modella, è la modificazione continua dell’insieme dei frammenti. Invece di scheggiare il mondo fuori dalla sua totalità, io direi, Linzalata ne varia il tutto. Se lega la deposizione alla nascita, unisce la fine al principio.

La storia della modernità è un vortice di frammenti, non solo nell'arte; di frammenti e relativi assemblaggi. Ne fornisce una sintesi proprio il ricorso a un icone -quella dell'albero - che è laterale nel moderno, centrale nell'arcaico e diffusa nell'antico; legamento dei tempi, dunque. Di fatto, la statua greca arcaica nasce come trave nuda, diventa statua di culto o xoanon in legno pregiato di ulivo o ebano nel mito di Dedalo ma anche in forza della techne nascente, e si conforma col sofisticato sphyrelaton, una statua articolata in pezzi sbalzati col martello, la cui tecnica orientale giunge a battere lamine di rame o d'oro sull'anima di quei legni per trame pezzi anatomici, scocche di corpi, successivamente legati in una figura. Sphyrelata e xoana, insomma, sono già assemblaggi che sfruttano tronchi d'albero per farsi macchine. Me lo dico per ricordare che il frammentario è proprio del costituirsi dei linguaggi plastici e votivi.

Ritroviamo l'albero e la sua simbologia presso l'opera di alcuni campioni del "modernismo - basti dire Duchamp, Brancusi e Mondrian - che ne hanno dominato le avanguardie dai primi anni Dieci. Nel dipinto Giovanotto e fanciulla in primavera (1911), Duchamp inscrive entro un albero l'emblema del vaso alchemico con Mercurio, dichiarando un esoterismo che manterrà criptico e giocoso. Unità ai readymade, tale immagine diverrà un duplice segnale: dell'albero quale axis mundi, e dalla coincidentia oppositorum che guida i principi degli alchimisti di ogni epoca. Similarmente, sia pure con accenti molto più arcaici e spirituali, il suo amico Brancusi farà evolvere la purezza dei suoi volumi dagli iniziali tronchi sbalzati come cariatidi, e sostituti di piedistalli, fino alla leggendaria Colonna senza fine (1937) realizzata in Romania. Ecco un asse del mondo che unisce, non solo la terra al cielo, ma anche la città al contado e l'antica arte di corte bizantina ai "bizantinismi" delle avanguardie moderne. Molti seguono tali opere esemplari ed influenti, molti scomodano Mircea Eliade e altri storici delle religioni, riportando a giorno l'archetipo dell'axis mundi, i suoi simboli di unità e legamento, il suo dettato distico. Alquanto diverso è lo schema simbolico implicito nei cicli pittorici (1910-15) con cui Mondrian scompone progressivamente rami e fogliame di un albero fino a trasfigurarli in "più e meno", negli assi cartesiani della sua astrazione neoplasticista; evidenziando, nondimeno, un asse di trasformazione dalla figurazione all'astrattismo, un legame tra naturalismo e concretismo.

Non resterà che traguardare la scultura alveolata di Donato Linzalata su tale succinto sfondo storico, se si vuole appurarne la portanza archetipica - tanto moderna quanto primordiale. Certo, la sua architettura verticale, la sua scultura frontale eppure tonda, del tutto plastica eppure così pittorica, spaziano come assi del mondo nei modi propri del simbolismo; ma non solo questo. Linzalata non esprime un'unità astorica. Lui tende a costruire un processo di unione nel proprio tempo, sui propri luoghi. O a ricostruirlo, come ci fa intuire lo scrittore Raffaele Nigro quando ipotizza che il suo conterraneo, "desideri pietrificare nelle sue sculture la società arcàica, raccontare la società pastorale e guerriera che sta a monte della normalizzazione magnogreca, la grande civiltà di Italo, re dei Lucani". E difatti, dal 1971 Linzalata va circondando il suo territorio con la Venere di Festula, il Menhir di Monteserico, la Demetra e Cerere di Machino, i totem del Vallone dei Greci e altre postazioni. Opere di fluidificazione estetica, per nulla pietrificate. Altrettante tappe della sua... colonna senza fine.

L 'unione è nell'albero. Fin dai suoi inizi. altro non fa, Donato Linzalata, che animare l'albero.

Ben presto ci introduce direttamente alla figura dell'albero - l'albero vivo - di cui alimenterà l'archetipo intellettivo non meno della linfa visiva. Si può dire che anche i disegni e i progetti dell'esordio (1962) tendono a una visione che sia completa, quanto più possibile, di radici e di fronde immaginifiche. Ciò implica fra l'altro la ferma intenzione di radicare la sua arte nella propria terra, la Lucania. Notiamolo, insediare il linguaggio globale nell'habitat locale è stato un esito del modernismo nell'arte - della sua dialettica di avanguardia e primitivismo - prima ancora che uno sviluppo della società tecnologica post-industriale. Così il giovane lucano si prepara a modificare il localismo ideologico della civiltà contadina in un archetipo universale.

Nel 1965, giunto a precoce maturità. l'artista accoglie e potenzia il simulacro umano che si delinea in un albero. Concentra la sua attenzione sui tronchi di un albero umanoide, la pianta dell'ulivo, per trarne in luce la figurazione larvale che rabbrividisce visibilmente su suoi nodi ondosi. Donde un proliferare di rilievi lignei, in parte suggeriti dalla natura, in parte scolpiti in via maieutica, che dichiarano subito la volontà di allocarsi entro un orizzonte antropologico. I titoli (vagheggianti "genesi", "maternità", "veneri" e altre "divinità") non sono posti a suggello descrittivo di scene in tal senso improbabili, ma piuttosto aggiungono segni intellettuali alla naturale scrittura lignea degli artefatti. Come se le scarificazioni della superficie dell’albero si facessero maschera "materna" o "sacrale" per preservare la funzione simbolica dell'opera.

La cui funzione, a questo punto, in quanto asse del mondo, risiede nell'unire l'arte alla realtà. Qui, l'arte fluisce in una realtà tutta interiore, che dialoga con le fonti antiche del simbolismo.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, Linzalata acquisisce forza plastica ed autonomia espressiva grazie all'illuminata ricettività percettiva con la quale accoglie e approfondisce la morfologia figurale dei tronchi di ulivo, le loro “figure umane a grappoli"; sulla base, anche, di un crescente interesse per le discipline antropologiche che ormai condivide con sua moglie. Opera controcorrente, Donato, già estraneo allo stanco neoclassicismo che aveva incontrato all'Accademia di Napoli, e adesso alieno da simulazioni pop e tautologie concettualistiche.

L’ampia serie iniziale di queste sculture -che chiamerei l'umanità dell'oliveto- merita di essere meglio conosciuta e diffusa. La considero un brillante capitolo della moderna arte del nostro Meridione; assimilabile, per esempio, alla radice "ikebana" dei legni trouvè di Isamu Noguchi.

Ben vicine sono le ascendenze stilistiche che individuano il linguaggio dell'artista lucano. Le ha citate più volte: sono la scultura romanica e il simbolismo dei capitelli; nonché il luminismo gotico. La gestualità dei dannati è discesa dal pulpito senese di Nicola Pisano ed affolla con grappoli di umanità dalle movenze non più disperate l'oliveto di Linzalata, il suo tiepido limbo.

E' straordinariamente affascinante, questo pluriennale ciclo di ulivi patinati che, non lontano dall'antropomorfismo della mitica mandragora, configura la genesi di un popolo arboricolo. Lo percorre un'umbratile duttilità pittorica, propria dell'istinto cromatico che Linzalata non ha mai smesso di esercitare sulle tele. Inoltre, la luminosità delle superfici tempera la tattilità sensuosa dei rilievi lignei accarezzati dall'occhio e ne rafforza la percezione ottica. E già vi si annunciano l'ideale dell'archetipo e la spazialità costruttiva che presto struttureranno l'opera.

A chi, a che cosa, può appartenere l'arte di Donato Linzalata? Bisogna capire questo. Per un artista che vive tra la Lucania e la Puglia, uscire dai confini. dopo avere molto esposto a Matera e nel Sud, richiede la fatica di un duplice riconoscimento, all'interno; della provincia non meno che all'esterno, e non di rado, il successo esterno contrasta con quello interno per invidia umana. A un artista che opera nei centri egemoni basta invece l'appartenenza alle cerchie cosmopolite.

Assegnerei a questo ambito sociale e psicologico la formazione della scultura totemica che Linzalata avvia fin dal 1968, prima ancora di misurarla, com'è ovvio, con la storia iconografica del diffusionismo primitivista. Linzalata "reinventa" il totem per un orgoglioso atto visivo di appartenenza al Meridione, come una pala per l'altare del paesaggio lucano. Non solo lo nomina con le locali divinità greche, ma lo chiamerà anche Marchio (‘97).

Nell'evoluzione ideografica della sua arte, la scultura che si dissemina in funzione totemica fonda così il simulacro sociale, il diritto di un'etnia all'autonomia della lingua e degli dèi, dopo che il ciclo degli ulivi scolpiti ha scavato nella natura la misura antropomorfa delle figure. Non mi pare istruttivo risalire allora alle religioni animistiche, all'origine etnografica del totemismo delle tribù sciamaniche, vuoi quelle degli Indiani delle pianure americane, vuoi dell'Oceania; se non per limitarmi a riconoscere che, sì, in effetti tutto risale all'archetipo dell'axis mundi; ma anche per ribadire che, no, qui non c'è analogia culturale, artistica tantomeno; c'è bensì una più dirompente omologia di fondo, quella dell'unità degli intenti linguistici. Lungi dal fare ipotesi su un possibile totemismo mediterraneo, la scultura degli assi del mondo inaugurata da Donato Linzalata moltiplica più che altro le forze magnetiche di un solo polo. un archetipo: gli assi/totem dell'unione sono ovunque come gli alberi (e come questi vanno scomparendo).

Scevro da citazioni ed esotismi, il lungo ciclo dei totem linzalatiani (mediterranei no, autografi sì, nella certezza che questo artista ha sognato l'America precolombiana e i mari di Gauguin) che sono tuttora in evoluzione, non solo è il prodotto di una personalità di talento che, figlio di un maestro d'ascia, ha aggiornato il sapere sculturale dell'intaglio con l’intelligenza degli assemblaggi di avanguardia; ma ristabilisce anche, e soprattutto, le radici e la continuità del genius loci di un territorio di alta frontiera, erede della Magna Grecia, che vuole modificare. Perché congetturare un totemismo mediterraneo, fossa di ogni evidenza, quando è possibile ricollegare gli assi verticali di Linzalata alle simbologie greche dell'erma e dei legni dedalici?

Stimolanti riflessioni vengono inoltre dagli inserti policromi che tassellano le composizioni a portale sul declinare degli anni Ottanta, quali Gea feconda Venere (1987), arricchendone l’architettura. In questi frontoni lignei, aerei e trasparenti, la scultura pare prossima alla pittura rupestre. La policromia del legno richiama la volumetria della roccia. Come l'albero è spesso compagno della caverna, così il colore disvela qui la trasparenza dell'anima delle figure. Nei loro portali passa già un fiato nomade. Tali opere poco più che bidimensionali di Linzalata si stagliano nell'architettura poiché mobilitano il territorio circostante. Sono stazioni di nomadi, dove l'incorrotta stanzialità del totem è doppiata dal corruttibilissimo passaggio della soglia. L’artista ha dedicato cinque totem alla Vallata dei Greci, più un menhir; non lontano dalla sua operosa Genzano, suppongo. 

Alte, agili, modulate come guardiane di strade sinuose, tali strutture costituirebbero una magnifica via di pellegrinaggio estetico, se fossero collocate in permanenza sui crinali della vallata. Ecco cosa intende per totem la generosità di un artista.

Sarà bene restituire verità a generosità, ricordando che le sculture di Linzalata sono coeve -e lo si può accertare attraverso numerosi segni- di pratiche artistiche quali la land art e il neoespressionismo della transavanguardia: per dire che esse dialogano molto con l'esterno. I suoi assi totemici non sono transavanguardisti nè minimalisti, perché ne sono un'alternativa. L'opera di Linzalata ha sviluppato presto un principio di astrazione interna che l'ha staccata dal contesto locale. Col tempo. vi sono proliferati tronchi nuovi, altri rami, radicati in sé stessi.

Ancor oggi, dopo più di trentacinque anni di vitale attività, lui continua ad accrescere col variare delle energie rinnovate le sue vite arboree. Sono l'albero della sua vita: ossia l'arte.

S'intitola così del resto - L'albero della vita (1970) - una delle sue sculture più slanciate dei primi anni, arcuata sulla forcella di rami che biforcano, come statua che sgamba e caracolla, in sé rara perché dinamica entro una selva di statiche palafitte ieratiche. E' l'albero dell'arte.

Mi domando quanta linfa primitivista ed espressionista circoli nei rami di un simile emblema. Risponderei di primo acchitto, come fanno tutti gli storici - suddividendo salomonicamente ciò che è indivisibile - che, sì, il primo periodo dell'arte di Linzalata (dal 60 all'80 circa) è stato decisamente espressionista; quasi che quei tortuosi tronchi scolpiti fossero profondamente turbati dalla scoperta della loro intima potenzialità statuaria, angosciati di essere ridotti a sculture, in preda ai raptus che gli uomini chiamano creatività. Lo è molto meno il successive periodo della statuaria arcaica modificata in totem, che ha privilegiato la simbolizzazione sull'espressività. Mentre la terza fase ambientale dei totem modificati in portali, o siti di culto, ha accentuato geometrie costruttive e relazioni spaziali con un'empatia non più espressionista. Quanto al primitivismo, l'opera di Linzalata certamente vi è incline - ma bisogna distinguere. E' estranea all'ordine orizzontale del tribalismo, è memore della verticalità delle arti di corte.

Quanto sono adiacenti, la materia e i segni, in questa scultura. Più che diramati, risultano gli uni con l'altra coinvolti. Li diresti osmotici, i segni e la materia. Mai caotici, bensì caosmotici, ossia regolatori della reciprocità tra l'ordine e il disordine. Dopotutto, qui i volumi e le umane fattezze sono innesti di linguaggio sopra un corpo vegetale che era muto prima che monco. Col risultato, sia pure ambiguo, che ora anche un albero può inserirsi nel progetto antropico. Chi potrà dire che l'evoluzione di tali piante -la quercia o il pioppo o l'ulivo - non memorizzi alla lunga, nei millenni dell'adattamento, la morfologia stravolta dagli artisti come Linzalata?

Donato Linzalata padroneggia un'opera che è tutta al presente, pregnante di attualità, quand'anche evidenzia un politeismo di fondo tra echi di culto, venerazione e trascendenza. Strano a dirsi, ma il tambureggiare religioso e tuttavia laicissimo delle sue forme e dei titoli avanza in un'epoca -presente, postmoderna e mediatica- che torna alla spiritualità sia pure entro una confusione che ben può dirsi politeista. Linzalata alza le sue sculture anche come assi tra l'apparire e l'essere. Pare prediligere l'essere con un'opera di simbolizzazione che mira a fare dell'arte, come diceva André Malraux, una "contemporanea dell'eterno". Al contempo, si unisce alle apparenze, che sono proprie di tutta l'arte storica, per riportare l'arte a un'ethnos.

Un popolo, si. Ma folto di quotidiane divinità, irto di dèi comuni. Non si disgiunga infatti il loro affollarsi comunitario in un ben distinto ethnos linguistico dall'aperta individualità plastica che distingue nondimeno ogni singola scultura. L'opera di Linzalata è molto attuale anche perché articola le palafitte dello sconfinato individualismo che oggi punteggia il presunto inizio di una nuova éra. Ogni sua scultura non è singolare come ciascuno di noi? Siamo tutti axis mundi.


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