Ettore Lorito - GENZANO DI BASILICATA - CRONOGRAFIA |
Parte I - Cap. VI - Vertenze col feudatario
A proposito di liti, dobbiamo
ricordare che anche tra il Comune e i Vassalli di Genzano non mancarono le
vertenze contro La Casa Marchesale nonostante l'equanimità dei feudatari.
Leggiamo in un antico ed anonimo
manoscritto esistente in casa dell'ingegnere Troiano, che «nel 1734 don
Domenico Dell'Agli, figlio del defunto erario marchesale don Gironimo, eletto
sindaco, si mise in mano la procura generale ad lites, intestolla a persona sua
dipendente e, in nome dell'Università, fece produrre nel Sacro Consiglio vari
capi di gravame contro il Marchese».
Il Comune posteriormente si ritirò
dalla lite che venne continuata, in nome proprio, dal Dell'Agli ma con esito
negativo.
Alla morte del Marchese la lite
venne rinnovata contro il figlio, Principe di Striano, in nome del Dell'Agli, di
sessanta coloni Genzanesi, e col concorso dell'Università ottenuto nel pubblico
Parlamento del 1754.
Anche questa volta il Comune si
ritirò. Ad istanza dell'Università e del Principe, Sua Maestà Cattolica, nel
1756, inteso il Real Consiglio, nominò arbitro, tra il Comune, i vassalli ed il
Principe, il Consigliere della Camera di S. Chiara, don Tiberio de Triolo, Il
venti novembre del 1758 si pubblicò il lodo arbitrale in alcuni punti
favorevoli al Principe in molti altri contrario.
Il laudo (lodo) venne accettato dal
feudatario e dall'Università riunita in pubblico Parlamento, e Sua Maestà
Cattolica ordinò al Sacro Consiglio "l'interposizione dell'expedit".
Sempre ad iniziativa del Dell'Agli,
altra lite venne ìniziata dalle suore di S. Chiara di Genzano per liberarsi del
diritto di mezza semenza sulla tenuta Paterniciosa, ma il Sacro Consiglio
respinse l'istanza nell'agosto del 1768 a "che Marchio Genzani jure suo
servata ferma laudi, etiam a sementibus in territorio Paternicioae ".
Alla morte del Principe di Striano,
eletto Sindaco don Costantino Dell'Agli, figlio di Domenico, nonostante che il
lode fosse stato solennemente accettato da tutte le parti, venne dall'Università
di Genzano impugnato ma con esito del tutto negativo.
L'anonimo autore del manoscritto,
con evidente spirito di parte, attribuisce unicamente all'odio di don Domenico
Dell'Agli contro la Casa Marchesale di Genzano, che non lo aveva nominato
Erario, il movente delle liti, ma l'insistenza del Governo Municipale,
l'adesione dei cittadini alle liti, fino al punto di sostituirsi all'Università,
l'esito stesso dell'arbitrato, dimostrano il contrario, certo, perché il
Dell'Agli si mettesse a capeggiare una lotta contro il feudatario di quei tempi
ben gravi dovettero essere le inimicizie con la casa del Principe.
Parte I - Cap. VII - Il castello di Monteserico
Nel punto più elevato di questo
territorio, ora tutto coltivato e che nel giugno disserra le sue capaci porte
per elargire, a profusione, il più bel tesoro della vita, il pane: sorge un
rude Maniero: il Castello di Monte Serico, da tempo dichiarato monumento
Nazionale.
Incerte sono le notizie intorno
alle sue origini.
Alcuni ritengono che sia apparso
nella storia al tempo dei Romani e che nelle sue vicinanze sia avvenuta non solo
una battaglia durante l'audace tentativo di Spartaco (70 avanti Cristo) ma anche
lo scontro tra il Console Marcello e Annibale.
Il Fortunato lo ritiene opera di
Federico II, ma a parte la circostanza che i castelli Svedesi hanno ben altra e
più leggiadra struttura, di esso come diremo in seguito, si parla sicuramente
nella storia molto tempo prima della nascita di Federico II.
Altri, tra cui il Giannone, lo
credono Normanno; anche questa opinione è del tutto errata giacché del
Castello si parla nella storia a proposito della battaglia tra Bizantini e
Normanni avvenuto in quel luogo nel 1041, cioè venti anni prima che
incominciassero a regnare i Normanni, sulla collina che porta ancora il nome di
«Serra della Battaglia».
Durante tale battaglia il Castello
era difeso al punto che non poté essere espugnato.
L'eroe di Monte Serico contro i
Greci fu il prode Gualtieri, genero di Tancredi d'Altavilla. (1)
I più lo ritengono fondato verso
il 900 perché ne trovano menzione nello scontro avvenuto tra le force alleate
di Guaimaro II di Salerno e Landolfo I di Benevento contro le genti dello
stratega Anastasio.
Il Deblasiis ne «La Conquista
Normanna» (v. I, pag. 141) scrive: «che Guaimaro e Landolfo il 929 per
compensare i Normanni dell'aiuto prestato a Monte Serico e a Monte Peloso,
concedettero loro diversi castelli tra cui quello di Spinazzola ».
Il primo, per quanto si sappia, che
abbia parlato del Castello di Monte Serico fu il monaco cassinese Amato (2); lo
scritto andò perduto; ma esiste una traduzione in lingua francese del Secolo
XIII, sotto il titolo: « L'Istoire de li Normant et la cronique de Robert
Viscart ».
In detto libro si legge: «Et li Normant qui bien lo
serent isserent de costé et entretant que lo exercit de lo empereor estait en
lo secret de mont Pelouz, li Normant par grant hardiesse s'en vont a Monte
Soricoy ».
Poi continua: «Dispersi i nemici, fatto prigioniero Exaugusto, tentarono
di espugnare il Castello di Monteserico, ma trovatolo validamente difeso, i
Normanni fecero ritorno a Melfi trionfanti».
Ora per trovarsi il Castello in
tanto efficienza bellica, evidentemente era stato costruito molto tempo prima.
Secondo il manoscritto di cui
parlammo nella precedente pubblicazione a «Sotto l'Arco di Eros», il Maniero
venne fondato in epoca assai remota, non come luogo di difesa, ma come luogo di
villeggiatura e ciò spiega le sue modeste proporzioni.
Riteniamo che dovette essere una
una Villa di quelle rustiche vagheggiate da Terenzio, di qualche ricco Cavaliere
Romano, come villa di qualche dovizioso Senatore Romano fu il superbo Castello
di S. Maria del Monte in territorio di Andria.
Dice al riguardo Vito Sgarra: tanto
i Cavalieri quanto i Senatori Romani avevano molte ville; per esempio, Verre ne
ebbe 22, e lo stesso Cicerone, che non era tra i più ricchi, ne ebbe 18 per non
parlare delle moltissime e sontuosissime di Lucullo.
Il nostro Castello pare sia anche
stato sede del presidio di sorveglianza, quando, il Tavoliere e il Monteserico,
prima di essere destinati alla pastorizia, il che rimonta alla decadenza
dell'Impero, furono luoghi di deportazioni (3),
Verso il 980 avvenne che Ottone II,
dopo aver invasa la Puglia, dispose che ai confini delle regioni occupate
venissero creati dei posti di difesa da servire anche come luoghi di
rifornimenti per la progettata impresa delle Calabrie.
Allora il Castello venne
trasformato in fortezza.
Altre radicali modifiche si fecero
in epoca posteriore e ciò ha creato confusione ed ha reso difficile stabilirne
l'origine.
Il Maniero, sobrio nella sua
struttura architettonica, sorge sulla cima del Monte che dà il nome alla
contrada a 557 metri sul livello del mare.
E' un punto trigonometrico posto a
40° 51' e 15" di latitudine e a 3°, 42' di longitudine Est dal Monte
Mario, è' formato di una massa rettangolare foggiata a scarpa dalla parte
inferiore e continuata al di sopra, da un basso maschio a forma di
parallelepipedo, al centro si eleva una torre quadrata.
Ai locali terranei si accede
direttamente dal portone; nell'interno vi è una breve corte quadrata che separa
il maschio dalla massa estema che lo recinge.
Al piano terreno la pianta è
divisa in due parti parallelamente al muro d'ingresso con un arco poderoso
ellittico, allungato come un manico di paniere; l'arco sostiene la volta a botte
a sesto acuto.
Sotto questo ambiente è murato un
serbatoio stagno per la raccolta delle acque piovane.
Una scala a chiocciola, molto
angusta, mena ai due piani superiori ora del tutto trasformati.
Il Castello è unito alla spianata
che si stende a Sud-Est a mezzo di un ponte levatoio, mentre, dagli altri lati,
si erge a picco sulla nuda roccia.
Il profondo fossato che, pieno di
acqua, ne difendeva la parte Sud-Est isola completamente il Maniero rendendolo
una rocca inespugnabile.
Il Castello, dopo la morte di
Aquilina Sancia, passò ai Sanseverino; nel 1348 obbediva a Francesco del Balzo,
maestro di Giustizia dei Reame, che aveva come Ufficiale Giannino, e rimase
abitato anche dopo la scomparsa della Borgata di Monteserico avvenuta tra il
1400 e il 1430.
Sotto Federico Il venne destinato a
sede del «magister massarium Apuliae».
Nel 1603 era del Genovese Grimaldi;
nel 1613 dei Doria.
Alla fine del 1700 era posseduto da
alcuni discendenti della famiglia Sancia (4), indi rimase abbandonato.
Acquistato, il 30-1-1857 dai Baroni
Dell'Agli-Certi, fu venduto ai Cafieri il 30-3-1875; ma allora il Castello era
già divenuto un luogo inabitabile; il recinto, la corte adibiti a ovili,
mentre, a causa dell'intemperie e del vandalismo dei custodi degli armenti,
tutto l'edificio era andato in completa rovina.
Nel 1897 il popolo di Genzano, in
seguito ad un sogno fatto da un vecchio asceta, si riversò in massa, in quel
luogo e, a viva forza si mise a scavare sul fianco settentrionale del Castello
in cerca della Madonna sognata dal vecchio.
Il lavoro durò parecchio tempo e
fu ripreso negli anni successivi col solo risultato di gravi lesioni al
fabbricato (5).
Dopo la grande guerra il tenente
Gandini comperò una porzione del feudo del Cafieri ed il Castello, che riattato
e in gran parte rimodernato, allietò, per qualche tempo, le ore di riposo
dell'avvenente attrice: Lida Borelli.
Attualmente trovasi nelle mani dei
ricchi coloni Di Chio di Spinazzola.
Concetto Valente nella «Guida
turistica-artistica di Basilicata» dice: Sopra un poggio, a breve distanza da
Genzano, sorge isolato e imponente il «Castello di Monteserico », che è
uno dei pittoreschi edifici Militari...
È posto a cavaliere della strada,
che da Genzano conduce a Irsina (Montepeloso) e domina la catena della Serra
della Battaglia.
Il nobile monumento ospitò la
corte Sveva...
Dall'alta torre lo sguardo scorge
il Guaragnone, addossato alla nuda murgia, Poggio Orsini, Castel del Monte e
l'ubertosa pianura pugliese».
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(1) Giovanni Rossi. Vicende antiche
di Spinazzola, pp. 7-10.
(2) Chembino. Testamento di
Aquilina Sancia.
(3) Biagio Lorito. Appunti sparsi
(4) Vedi «Sotto l'Arco di Eros»
di E. Lorito.
(5) Si rinvennero, durante gli
scavi, monete antiche di oro, di argento e di bronzo e molti vasi a riprova
dell'esistenza del Borgo di Monteserico.
Parte I - Cap. VIII - Il Santuario
A qualche centinaio di passi dal
ponte levatoio, sulla spianata del Castello, esiste una disadorna Cappella nella
quale, un tempo tutte le domeniche(1), ora una volta all'anno, un Sacerdote di
Genzano, dalla scomparsa del Borgo, si reca a celebrare la S. Messa.
In tondo all'umile Santuario,
sull'unico altarino di pietra grezza, vi era un quadro raffigurante
l'Annunciazione, pittura su tela di ignoto autore ma di non scarso valore
artistico, da qualche decennio sostituito, non si sa da chi, con un quadro di
quelli che si vendono, per poche lire dai negozianti ambulanti.
La sagra Immagine era ed è
ritenuta miracolosa ed adorata quale protettrice del vasto territorio.
La Cappella, dalla volta a botte,
non presenta nulla di notevole, al di sotto di uno sgangherato confessionale si
apre una botolina che mena al sottostante ossario.
Ma la Madonnina di Monteserico non
ebbe i suoi primi culti sul vertice della montagna ove sorge l'attuale
chiesetta.
In origine faceva parte delle
Immagini esistenti nella «Ecclesia Sancti Andreae» dello scomparso borgo «De
Monte Sericola» (2).
Nel 727 sorsero gli Iconoclasti che
fecero sentire la loro opera nefasta anche nel Ducato di Napoli che era di parte
Greca, cioè dell'Imperatore d'Oriente.
Avvennero scene vandaliche in ogni
luogo ma specialmente nella nostra regione perché nella Basilicata, a Carbone,
i basiliani ebbero una Chiesa ed una scuola.
Una delle incursioni partite da
Carbone, giunse a Monteserico, in tutti i paesi minacciati, le sacre Immagini
venivano nascoste nei luoghi più reconditi e e così avvenne dell'Annunciazione
di Monteserico.
Quando furono cessati i feroci
bollori, si riprese il culto esteriore nella caverna che aveva custodita
l'immagine.
Solo molto tempo dopo, quando il
borgo era già scomparso, si eresse, dalle famiglie dei Genzanesi che facevano
un giorno parte del borgo di Monteserico, l'attuale modesto Santuario su di una
delle grotte in cui visse e cominciò la predicazione S. Guglielmo da Vercelli,
nel secolo XII.
La Cappella fu dotata di quattro
carri di terreno sui quali si teneva la fiera (3) nella prima domenica di maggio
di ciascun anno, giorno in cui i Genzanesi in devoto, pellegrinaggio, si
recavano al Santuario.
Posteriormente la data del
pellegrinaggio venne spostata ed il rito si svolge ancora oggi nella domenica
che precede la Pasqua delle Rose e costituisce la migliore caratteristica delle
locali Feste Patronali.
In tale occasione «la popolazione
aveva l'uso di emigrare in corpo per celebrare una festività nella Cappella di
Monteserico e celebrare la fiera nei quattro carra di terreno annessi e di
proprietà della Chiesetta poi, verso mezzogiomo, il corteo si ricomponeva e si
recava sul Gorgottiere per il carnevaletto, cioè per i soliti divertimenti di
uso, corse di cavalli danze a nacchere e a tamburrini e pranzi che da ultimo
erano sepolti nello scuro liquore di Bromii (4) e della libertà.
Dopo di che la popolazione,
capitanata dal Clero, ebetescente e festante, nel corso della notte rientrava ai
Sacri Lari» (5).
Al Castello veniva offerto un
sontuoso pranzo alle Autontà di Genzano e al Clero, ed una colazione abbondante
ai pellegrini poveri.
Al Gorgottiere si regalava, e si
regala, un pranzo ai poveri reduci dal Castello, il Tavolario De Fusco fa
risalire al 1535 l'origine di tale tradizione ma si ritiene di epoca anteriore e
precisamente del tempo in cui gli abitanti della borgata dí Monteserico si
fusero con quelli di Genzano.
Del trattamento che i Castellani di
Monteserico facevano alle Autorità di Genzano ed ai pellegrini poveri che colà
si recavano in occasione della festa e della fiera, l'anonimo cronista altre
volte citato ha lasciato un elenco di spese compilato nel 1648 dall'erario del
Castello.
Eccone la copia
« Pel molto Reverendo Clero, pel Capitano, pel 1°
Eletto, pel Giudice della Bagliera di Genzano e per la scorta dei medesimi: Per
N. venti pollastri, Carlini dodici; per due rotoli di presunto Grana
ventiquattro; per pesce mandato a comperare a Barletta a mezzo dell'ogliarolo di
Nola: Cesare d'Aniello, Ducati tre; per carne daino, rotoli dieci, Carlini
quattro e Grani due; per caciocavallo, rotoli tre, Grana sessanta; per harrave
80 di vino chiaro, Carlini decedotto. Per stoppelli venti di orgio alli cavalli
forastieri tarì sedici.
Per i pellegrini poveri:
Per caso, a grani sette la rotola, Carlini otto; per carne di
pecora rotola trentasei, ducati uno e grana sedici: per harrave 50 di vino
scuro, Carlini sei.
Per companaggio al correre Pinto, criato dal Marchese
Caracciolo, venuto per conto del Rev.mo Cappellano della Cappella del S.S.,
della chiesa Colleggiata di Grottole, per esigere la Bardella, e per orgio alla
sua Cavalcatura, Carlini 1».
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(I) Avv. Michele
Bonifacio.
(2) Biagio Lorito. Appunti sparsi.
(3) Avv. Marotta.
(4) Genitivo di Bromius (Bacco). E.
Lorito.
(5) De Fusco Relazione del 1615
altre volte citata.
Parte I - Cap. IX - Il Monte Serico ed il Cafieri
Il barone Dell'Agli-Cetti, il 30-3-1875; vendette al signor
Cesare Cafieri di Barletta il suo latifondo di carra 53, versure 18 e catene 18
a lire 660,68 per versura e, posteriormente, per lire 15.000, tutte le vie, i
tratturi e riposi colà esistenti, ed appena il nuovo proprietario si insediò
nel Castello cominciò a fare molestare dai guardiani i cittadini di Genzano che
colà si recavano per l'esercizio degli usi civici che godevano «ab antiquo et
memorabili» e ne nacquero lotte a volte sanguinose.
In verità le guardie di Monte Serico furono, in ogni tempo,
famose per la loro ferocia.
Come dicemmo nell'altra pubblicazione «Sotto l'arco di Eros»
i signori del Castello mandavano in giro numerose guardie a cavallo, antichi
baglivi, per proteggere gli armenti e la proprietà dai predoni che infestavano
il contado.
Spesso gli audaci predoni pagavano con la vita le gesta
criminose perché dai «Froci», come il popolo li nominava, non c'era da
aspettarsi pietà.
Giustizia sommaria veniva fatta sul posto. Ciò per
antichissima consuetudine e forse in omaggio ad un editto del re dei Longobardi,
Rotari, del 643 che «autorizzava i danneggiati a uccidere gli autori del danno
colpiti in flagranza».
Veramente l'editto riguardava le manomissioni dei limiti
della proprietà, delle siepi, delle strade... ma venne, abusivamente, esteso ai
danni campestri in genere.
Del resto anche la legge delle XII tavole contemplava la pena
di morte contro quelli che mutavano la faccia dei luoghi e distruggevano i
confini o i termini (1).
Le guardie del Cafieri volevano, a sproposito, ripetere le
gesta dei «Froci ».
Già in precedenza nel 1870, l'indegno Genzanese Savino
Carbone più che fittuario, sicario dei Baroni Dell'Agli-Ceffi, «si arbitrò di
ridurre a seminatorio e quindi a chiudere le quattro carra di territorio
adiacente alla Cappella e che ne costituiva la dotazione e su cui la popolazione
di Genzano, dopo la festa religiosa, era solito di celebrare la fiera; le
quattro carra di terreno vennero incorporati nella proprietà dei Baroni e poi
del Cafieri e la fiera non si poté più celebrare (2) ».
Non contento di ciò, complice il
Carbone, il signor Cafieri, cominciò a impedire il passaggio sulle vie che
attraversavano il latifondo col far scavare fossi, piantare siepi, collocare
catene di ferro infisse a pilastri fabbricati ai lati dei tratturi.
Spesso si usava violenza contro gli
inermi cittadini.
Il Sindaco di Genzano, con
opportune ordinanze, provvide a far rimuovere gli ostacoli e così ebbero
origine altre liti che si sono protratte sino ai nostri giorni.
Si tentò anche di impedire,
siccome era avvenuto per la fiera, l'annuale pellegrinaggio al Santuario di
Monteserico, ma questo secondo colpo non riuscì e giustizia venne fatta al
popolo.
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(1) Avv. Rossi.
(2) Avv. Marotta
Parte I - Cap. X - I tratturi
Per avere un'idea della dispotica richiesta del Cafieri nei
voler impedire il passaggio ai Genzanesi sui tratturi e tratturelli, bisogna
tener presente il numero veramente grande delle strade che intersecavano il
Monteserico.
Nella sola zona del Cafieri, oltre alle strade che menavano
da un campo all'altro delle tenute, esistevano:
I. La via del Castello, che partiva dal R. Tratturo «Palmira-Spinazzola-Corato»
e arrivava al Castello ove finiva;
II. La via «Cafrio o della Regina» che cominciava dal R.
Tratturo soprannominato, passava per la Regina, e andava a raggiungere l'altro
R. Tratturo « Spinazzola Gravina»;
III. La Via, «o passata, dei Buttari » che aveva
inizio dal Castello ed andava ad incontrare il R. Tratturo di Gravina;
IV. La via «Isca della Badessa», che andava dal R. Tratturo
Palmira-SpinazzolaCorato sino a quello di Gravina.
Crediamo opportuno dire, intorno ai tratturi, qualche cosa.
Tratturo, da «trattoria» che nei codici di Teodosio e
Giustiniano disegnava i privilegi spettanti a coloro che transitavano per le
pubbliche strade, oppure dalla riunione delle due parole "tractus iter»(1)
vuol significare: via erbosa per il passaggio delle pecore.
I tratturi si dicevano regi, quando mettevano in
comunicazioni le località di un'intera regione ed erano destinati al passaggio,
al riposo, al pascolo di numerosi armenti.
Per rispondere a tali esigenze, dovevano necessariamente essere larghi e fomiti, a debita distanza, di ampi spazi liberi destinati alle soste e perciò chiamati Riposi.
Sotto Alfonso I i tratturi vennero allargati e si ebbero tratturi di passi sessanta, cioè di m. 111,11; di passi trenta, cioè di m. 55,55; di passi venti, cioè di m. 37; quelli di passi dodici, cioè di m. 22.
Vi erano, tra uno e l'altro, i bracci di tratturo delle medesime dimensioni.
Quando il Monteserico venne censito
ai numerosi proprietari e si iniziò a dissodarlo e quindi a diminuire
l'industria armentizia, cominciarono a sparire i riposi, utilizzati come aie,
oppure dissodati e messi a colture.
I tratturi, al pari di ogni cosa che sia di tutti e di nessuno, divennero facile preda dei frontisti che li usurparono o, quanto meno, li ridussero ad angusti viottoli.
Ciò avveniva mentre erano ancora
in vigore: il decreto di Ruggiero II, che minacciava di morte chi avesse in
qualsiasi modo impedito il transito degli armenti sui tratturi; il decreto di
reintegra di Carlo V del 1549; il decreto del 1559 e quello del 1574 (che
ordinava anche i termini lapidei); del 1600; del 1651 (che finalmente disponeva
la compilazione di una pianta topografica); del 1712; del 1806; del 1826 ed
infine la legge 26 gennaio 1865 del Governo Italiano che metteva i tratturi
sotto la sorveglianza degli Agenti Demaniali, Forestali e Comunali.
Quello che avvenne dei, tratturi in
questione ognuno lo può vedere girando per il nostro Monteserico; ove non sono
scomparsi, rimangono delle viottole «carrari» su cui si passa, a stento e solo
durante la buona stagione
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(1) Avv. Montesano.