Don ROCCO SCAZZARIELLO

Cenni biografici

Don Rocco Scazzariello è nato a Genzano di Lucania (Potenza) nel 1923.

Ordinato sacerdote nel 1948, ha svolto il suo apostolato tra la gente umile e laboriosa dei campi, in veste di cappellano degli assegnatari dell'Ente Sviluppo di Puglia e Basilicata, oggi ESAB (Ente Sviluppo Agricolo di Basilicata). Come insegnante di religione e di educazione musicale nelle scuole statali, si è distinto nella formazione spirituale e culturale dei giovani.

Si è reso promotore di una nobile iniziativa socio-educativa, quella di aver costituito a Genzano il complesso bandistico «Santa Cecilia», da lui stesso diretto, che gli ha meritato un attestato di benemerenza da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, che lo autorizza a esercitare la professione di Maestro - Direttore di banda.

Quasi inosservato, a causa della sua modestia, dopo un lungo e paziente lavoro di studio e di ricerche, ha condotto a termine la raccolta "Canti popolari e altri testi di tradizione orale raccolti a Genzano di Lucania" che lo ha tenuto impegnato per oltre quindici anni.

Ha composto un dizionario dialettale ed una commedia di ambiente

Recentemente scomparso, si era impegnato negli ultimi anni alla stesura di un Ricettario gastronomico lucano.

Don Rocco Scazzariello

Dalla raccolta "Canti popolari ...": U 'mbirn 'nta la chìs d' la Madonn.

Il canto rievoca una terribile disgrazia verificatasi il giorno 11 maggio 1845, domenica di Pentecoste, nella chiesa di Maria SS. delle Grazie, Protettrice di Genzano. Ricorrendo in detta data la festa in onore della Madonna, come al solito, ci fu la solenne processione con la partecipazione di molti pellegrini venuti da paesi limitrofi, a conclusione della quale, durante la messa cantata, il predicatore stava tessendo il panegirico della Madonna.

Per cause imprecisate, probabilmente per effetto del calore dei molti ceri accesi, uno di questi, spezzatesi, cadde sull'altare maggiore e provocò un incendio di notevoli proporzioni che, tra l'altro, distrusse quasi completamente i sontuosi addobbi installati nella chiesa.

Nella calca una trentina di persone persero la vita, mentre moltissimi furono i feriti, specialmente tra bambini e donne incinte. Il sangue freddo dell'allora ventunenne Davide Mennuni, che intervenne con una sciabola sguainata per regolare l'uscita dalla chiesa,scongiurò una vera e propria catastrofe. E' l'unico canto, di cui si conosce l'autore: un certo Donato Rizzi, «miserabile contadino». Di lui nulla di più si sa. Forse morì tra il 1859-61.

UN INFERNO NELLA CHIESA DELLA MADONNA

A Te ricorro, fonte di pietà,

Monarca del cielo, o mio gran Signore.

Dammi estro e aiutami per la strada

dello sconquasso che avvenne il giorno Tuo.

Maria Madre di Grazie Immacolata,

tenete la potenza e la corona

che l'Eterno Padre a voi ha donato;

potete voi salvare gli uomini della terra,

potete salvare tutti i dannati,

quelli che sono più indegni peccatori.

Con la santa Grazia beata

potete operare ogni momento.

Spirito Santo mio, metti riparo,

Te le devo confidare queste due parole,

fa' che la mente mia non si distragga,

io devo raccontarle a tutti questi signori.

Se volete sentire uno spasimo,

consideratela solamente voi

la potenza di Dio e, che peccato!

povera gente che vi è incappata.

Ovunque circola la notizia

e parimenti sopra il Monitore:

«Che è successo in Genzano?»

Vi è stata la morte e il terrore.

Il mille ottocento

quarantacinque avvenne questo fatto,

si doveva fare una festa

il giorno della Pasqua delle rose.

Era l'anno dopo della mala annata

quando avvenne questo brutto fatto,

si doveva fare la festa

di Maria Madre di Grazie miracolosa.

Con bande, con tamburi e allegria

dall'Ascensione noi l'incominciamo,

fino al sabato, con un bel nome,

chè dobbiamo fare la festa di Maria.

Con tanta gioia e suoni a frotte,

grandi e piccoli tutti vestiti a nuovo

per le strade del paese andavano

di quella Pentecoste la mattinata.

Alla chiesa di san Pietro andiamo prima,

di là parte la processione;

s'inizia con un grande ordine,

tutta la gente segue con devozione.

Forestieri e paesani con la corona in mano

andavano recitando il Rosario per la strada;

la statua stava ben difesa

scortata da quattro guardie d'onore.

Il popolo si sentiva tutto sazio;

andiamo ad accompagnare Maria Madre di Grazie.

La dobbiamo accompagnare fino all'ultimo,

giusto come vuole la tradizione.

Andavano appresso tutti, chiedendo grazie,

ma la Madonna non ne poteva fare:

il Signore aveva destinati

quelli che sarebbero morti soffocati.

II cattivo presagio che ci diede Maria

lo prese dallo sparatore;

un petardo da lontano si partì

e andò nella guantiera di don Nicola.

Rimase più freddo lui della neve,

se lo avessero salassato non sarebbe uscito sangue.

Tutta la gente che gli stava dirimpetto:

«Potete digiunare (disse) la giornata di oggi»

Raccolsero da terra i denari

e li misero di nuovo nella guantiera.

La festa si faceva ancora più solenne,

andiamo appresso a Maria con grande fede.

Andiamo appresso con un grande amore,

andiamo a riporla nella casa sua.

Venne l'apparato per quel giorno

e si addobbò la chiesa alla stessa ora.

Furono poco accorti nel guarnirla,

fin che prepararono l'altare maggiore,

credendo di fare una cosa bella,

fu la rovina di trenta figliole.

Non si possono conoscere tutti i fini,

chi va per piacere e chi per amore.

Chi deve visitare questa Regina,

deve andare con tutto il cuore.

Siamo giunti alla Messa cantata

con grande assistenza e tanti suoni.

Il predicatore che predicava,

stava facendo il panegirico;

stava dicendo parole sacrate,

verso di Maria diceva:

«Maria, facci grazie, stamattina,

Maria, il volto tuo come mi appare! »

Tutta la gente si batteva il petto;

pareva che grazie non ne volesse concedere.

Il Signore aveva destinato

quelli che sarebbero morti soffocati.

Sant'Antonio che fu il reo

andò a spezzare un lume di candela,

un lume di candela appicciata

e si bruciò tutto l'apparato.

Quando il predicatore voltò l'occhio

e vide che la chiesa andava in fiamme:

«Maria Madre di Grazie com'è stato?

ora si brucia tutto l'apparato!»

Il popolo stava dirimpetto

e nessuno di loro se lo poteva immaginare.

Il sacerdote che doveva celebrare,

stava ascoltando quello che diceva;

poi volle salire sopra l'altare,

volle salirvi subito in quel momento;

fece per spegnerne una e si appicciarono cento

e tutta la chiesa pareva un fuoco ardente.

Si sente una voce strillare

e la sentono i tre quarti della gente:

«Vedete, popolo, di poter scappare

di dentro a questo brutto fuoco ardente.

Si misero a scappare per la navata

e nella chiesa fu un terrore:

tanto ce n'era di gridi e pianti,

che non si capiva più una parola.

Il maggior dolore era delle donne gravide

e quelle che tenevano i figli nelle fasce;

le trovarono tutte quante sotto sopra,

e li a terra fu fatta una salata (rovina).

A sentire quelle grida ti si schiantava il cuore;

chi saltava addosso e a chi si pestava il capo.

Povere donne e povere figliole,

la più sventurata era chi stava sotto.

Che brutta cosa e che terrore,

nel vedere quei cani arrabbiati!

Si davano di mano tra di loro

e si erano tutti quanti stravisati.

Chi chiamava il fratello e chi la sorella,

ma non c'era nessuno dei parenti loro.

Chi le tirava per le mani e chi per i piedi,

si slogavano le braccia di dentro ai seni.

Chi gridava: «Aiutaci, Madonna, per pietà!»

Chi invocava aiuto a quelli allato:

«Prendeteci per le braccia e tirateci fuori!»

Si stracciavano i panni loro a brandelli.

Chi gridava: «aiuto!» e chi piangeva,

tutti gli ori di dosso si perdettero

e, in mezzo a tanti guai e a tanto trambusto,

tanta di quella gente che se li rubò.

Com'erano impazziti quel giorno!

Nella chiesa, tutti quanti si spingevano,

di fuori, non c'era nessuno che non piangesse

nel vedere tanta gente calpestata.

Quelli che stavano avanti alla porta,

solo miracoli sapevano fare:

andavano per aiutare gli infelici

e rimanevano tutti come statue.

Solo un giovanotto chiamato don Davide

con la sciabola in mano andava dicendo:

«Non fate un altro passo avanti,

se no oggi moriamo tutti quanti!»

Si misero i morti a carreggiare,

il popolo andava appresso con gran lamento;

come li trovavano, per la strada,

li portavano direttamente al Convento.

Chi veniva portato sopra una sedia, chi coricato;

chi rotto di gambe e chi di capo,

chi stracciato di faccia e chi di braccia,

li portavano mezzo morti e mezzo vivi.

Chi guaiolava a destra e chi a sinistra,

non si potevano proprio guardare.

Chi teneva parenti e chi cognati

andavano piangendo tutti amaramente.

Il pianto delle mamme e dei vicini

nel riconoscere i morti e i feriti:

«Figlio, che mala sorte e che destino!

Chi ti ha sferrato questo calcio in faccia?»

Volevano tutti la bambagia in bocca

e andavano dicendo per le strade del paese:

«Li avesse colpiti una goccia o un tocco,

e non di questa brutta morte uccisi! »

Il pianto delle donne specialmente

quanta compassione ti faceva!

Tremando e con la voce dolente

i vecchi andavano dicendo: «Figlio mio».

Nella chiesa di S. Chiara e san Francesco

misero in fila i morti come in un cimitero;

i monaci dovevano essere castigati

chè vi passavano sopra come Giudei.

Dobbiamo lodare quella gran Regina,

Maria Madre di Grazia dal cielo

grazie ci manda sera e mattina:

mantieni il mondo incolume d'ogni male.

Per noi sarebbe stata una catastrofe

se Maria ci avesse voltato le spalle;

le porte del paese si chiusero

che dovevano passare i morti con il carro.

Lì a terra si era fatto uno scenario

e nella chiesa un lago di lacrime,

le persone non avevano dove mettersi

che oggi ci bruciamo tutti i panni.

Quando Maria vide così,

la portarono nella chiesa camminando

e la posarono nel mezzo della navata

dove il fuoco non sarebbe potuto arrivare.

Rimase quella chiesa sconsolata,

Maria Madre di Grazie così rimase

quella gran Madre nel mezzo della navata

quella che del Rosario il nome tiene.

Rimase quella Santa spaurata;

e che impressione brutta ti faceva

se lo guardavi l'altare

tutto quanto spoglio e senza cera.

Tre o quattro persone vi erano rimaste

le quali si davano coraggio con Maria,

andavano raccogliendo la cera e l'apparato

e ogni altra cosa che si ardeva.

Conturbata l'aria e conturbata la strada,

conturbato il volto di Maria,

si vide dal popolo abbandonata

quando tutti quanti se ne andarono.

Piangevano le vetrate e le vetrine,

piangevano anche le pietre della via

quando tutto il popolo se ne usci

e le porte della chiesa si chiusero.

Considerate le mamme e i padri

e chi teneva la fidanzata specialmente!

Tutta la notte fu un pianto finato,

tutte le case a lutto rimasero.

Senza posa insieme i mastri d'ascia,

chi prendeva la sega e chi la pialla,

chi porgeva chiodi e chi tenaglie

con l'ascia a preparare tutte le casse.

Quando fece giorno la mattina,

per ricordare la festa solenne,

per ricordare quell'undici di maggio

che fu la rovina di trenta figliole,

l'arciprete si mise a predicare,

soprattutto andava chiedendo al Capitolo

che cosa mai si sarebbe potuto fare

per aiutare quelle povere famiglie.

Scrissero al Giudice ad Acerenza,

ma, pure senza scrivergli, quegli già lo sapeva

e volle avviarsi subito prestamente

per verificare la cosa come andasse.

Dal disastro assai impressionato,

per non sentire tutta la gente,

fece chiamare il capo del paese

e il medico chirurgo e il supplente.

Si riunirono tutti i presenti

e lo stavano facendo il parlamento:

un'altra pena ebbero da soffrire,

ché, dopo morti, l'autopsia doveva farsi.

Non si sa se è frutto del destino

oppure di piangere qualche peccato.

Donato Rizzi vi vuol fare capire

che male si fa e male si riceve.

Cari fratelli miei, non ho che dirvi:

non passate avanti alle mie parole,

se ho fatto errori, vogliatemi compatire

che sono un miserabile lavoratore.

Cari signori che mi state davanti,

vi chiedo scusa e vi chiedo licenza,

se ho fatto errori, perdonatemi,

dovete compatirla la differenza.

Cari fratelli miei, non ho che dirvi:

nel male e nel bene troviamo l'occasione

di ricorrere sempre a Maria,

essa su di noi è la padrona.

Madre di misericordia sempre è

e ci protegge sotto il manto suo.

Ve lo devo dire proprio com'è:

son sempre brutti i peccati nostri.

Madre di misericordia sempre è,

prega il suo Figliolo sempre per noi.

Beato chi di cuore s'inchina,

così la Madre delle Grazie ci perdona.

Piange Montemilone, Banzi e Genzano,

Montepeluso, Oppido con gran lamento,

Spinazzola e Acerenza con il fazzoletto in mano,

che sono venuti a morire con i piedi loro.

Piangono i forestieri e i paesani:

Genzano ha avuto il più gran dolore,

ha avuto la morte e la rovina

e furti in quantità da non credersi.

Di questo mondo aspettiamo la fine,

fine non ce n'è e non ha nome;

secondo che il Signore noi serviamo,

così dal cielo ce ne manda il dono.

U 'MBIRN ‘NTA LA CHÌS' D' LA MADONN

A Tè recôrr, font d' piatàt',

Munàrch' d'u cil', o mî gran' Segnôr'.

Dàmm l'ari' e aiôtem' p' la strad'

d'u scunquàsc' ca fôz' u iurn Tui'.

Maria d' Matr e Grazi' Mmaculàt',

tenìt' la putènzi' e la crôn'

ca u Tèrn Patr a vui' ha dunàt';

putìt' vui' salva l'ùmen' d'la tèrr,

putìt' salvà tôtt i dannàt',

chidd ca so cchiô ndègn' peccatùr'.

Ch' la santa Grazia beiàt'

putìt' agetà pônte e ôr'.

Spéret' Sant mî, mitt repàr',

T' l'àggia cunfedà sti ddôi' parôl',

non m' fa la mènta valeià,

î l'àggia cuntà a tôtt sti segnùr'.

S' vulìt' sènt nu spelàm',

cunsederàtel' sulamènt vui'

la putènzia d' Dî e, che peccàt' !

Pôvera gènt ca ng' so 'ncappàt'.

P'u mônn vai' l'annumenàt'

e ancamènt sôp' a u monnetôr':

«Chè ià succìss nta Inzàn?»

ià stat' la mort e u terrôr'.

U mèll ottecìnt ca ià stat'

e i quarantacénq' fôz' sta côs',

s'havìa fa na festevetàt'

u iurn d'la Pasqu' d'i rrôs' .

Era l’ann apprìss d'la mala annàt'

quànn succèss sta brôtta côs',

s'havia fa la festevetàt'

d' Marî Matr e Grazi' mbraculôs'.

Ch' band, ch' tammôrr e allegrî

da l'Ascensiôn' nui' l'accumenzàm',

fin' a u sàbet', ch' nu bbèll nôm',

c'hàma fa la fèsta d'Marî.

Ch' tanta prisc' e sun' a curienàt',

gruss e zécch' tôtt vestùt' nuv'

p'i strad' d'u paìs' s' n' scinn,

d' chèdda Pentacôst la matenàt'.

A la chîs' d' sant Pitr sciàm' apprim',

da ddà s' prencépi' la preggessiôn';

s' prencépi’ ch’ nu gran sestém',

tott la gènt vai' ch' devuziôn'.

Frestir' e paisàn' ch' la crôn' 'mmàn'

scìnn decènn u Rusàri' p' la strad';

la statua stacî bbèn' guarnìt'

accumpagnàt' da quàtt guardi' d'unôr'.

U pôpel' s' sentî tôtt sazi';

sciàm' aggiuntà Maria d' Matr e Grazi'.

L'hàma accumpagnà fin' all'ôtem',

giôst cóm' vôl' la tradeziôn'.

Scinn apprìss tôtt, cercànn grazi',

ma la Madônn non n' putia fa:

u Segnôr' l'havia destenàt'

chidd c'havinna muré suffucàt'.

U mal' sègn' ca n' déz' Marî

u pegliàv' da sôp' a u sparatôr';

nu pizz da la lôngh' s' partév'

e scév' nta la vantir' d' don Necôl'.

Rumàs' cchiô frédd édd d' la név',

s'u sagnàven' non anzî sangh' fôr'.

Tôtt la gènt ca stacìa ntrecér':

«Putit’ degiunà la iurnàt' d' hôsc'!»

Pegliàren' da ntèrr i denàr'

e i metteren' arrét' nta la vantir'.

La fèst s' facî cchio ca ér',

sciàm' appriss a Maria ch' granda féd'.

Sciàm' appriss ch’ nu grand amôr',

sciamela a pusà a la casa sôv'.

Vènn l'apparat' chèdda dî

e s' vestév' la chìs' a la stèss'ôr'.

Fôren' pécch' accôrt a u vestérl,

fénca preparàren' la vutàra maggiôr',

credènn d' fa na côsa pulìt',

fóz' la ruìn d' trénta fegliôl'.

Non s' pônn sapé tôtt i fin',

chi vai' p' piacer' e chi p'amôr'.

Chi hàva vesetà sta Regìn',

hàva scé ch' tôtt u côr'.

Sim' arruhuàt' a la Méssa cantàt'

ch' grand assestènz e tànta sun'.

U predecatôr' ca predecàv',

stacî facènn u panagérech' ;

stacî decènn parôl' sacràt',

vèrs d' Marî i ddecî:

«Marî, fànn gràzi', stamatìn',

Marî u vôlt tui' côm' m' par'!»

Tott la gènt s' hrattàv' u pitt;

parìa ca gràzi' non n' vulìa cuncéd.

U Segnôr' l'havia destenàt'

chidd c'havìnna muré suffucàt'.

Sant Antoni' ca fôz' u réh'

scév' a spezza nu lum' d' cannél',

nu lum' d' cannél' appezzecàt'

e s' ardév tôtt l'apparat'.

Quànn u predecatôr' vutàv' l'ùcchi'

e vètt ca la chîs' s' ardî':

«Maria d' Matr e Grazi' côm' ià stat'?

Mo s' ard tôtt l'apparàt'!»

U pôpel stacî ntrecér

e nesciùn' d' lôr' s'u putìa créd.

U prèhut' c'havìa celebrà,

stacî sentènn a chidd ca ddecî;

pô vulév' nchianà sôp' a la vutàr',

vulév' nchianà sôbet' a côdd mumènt;

scév' p' stutà un' e s'appecciàren' cint

e tôtt la chîs' parî nu fuch' ardènt.

S' sènt na vôc' d' strellà

e la sènten' i tré ppàrt d' la gènt:

«Vedit, pôpel, d' putè scappà

da ént a stu brôtt fuch' ardènt! »

S' mettèren' a scappà p' la navàt'

e nta la chîs' fôz' nu terrôr':

tànt ng' nn'ér' d' grid' e chiànt,

ca non s' capìa cchio na parôl'.

U cchiô delôr' ér' d'i dônn gràved'

e chèdd ca teninn i fégl' mbassàt';

i truhuàren' tôtt quànt sotta sôp',

e ddà ntèrr fôz' fatt na salàt'.

Sentènn chidd grid' t' murî u côr';

chi zumpàv' da sôp' e chi p' ncàp'.

Pôver' donn e pôver' fegliôl',

la cchiô sventuràt' ér' chi stacî sott.

Che brôtta côs' e che terrôr',

vedènn chidd can' arrabbiàt'!

S' dacinn d' màn' lôr' ch' lôr'

e s'èren' tôtt quànt stravesàt'.

Chi chiamàv' u fràt' e chi la sôr',

ma no ng'ér' nesciùn' d'i gènt lôr'.

Chi i teràv' p'i mmàn' e chi p'i pid',

s' n' menìnn i vràzz da nta i sén'.

Chi gredàv': «Aiôten', Madônn, p' piatà!»

Chi chiamàv' aiùt' a chidd du lat':

«Pegliàten' p'i vràzz e teràten' fôr!»

S' n' meninn i pànn lôr' a pezzàt'.

Chi gredàv': «Aiùt!» e chi chiangî,

tôtt l'or' da ncùdd s' perdév'

e, mmìnz a tanta huài' e tanta 'mbrùgl',

tanta d' chèdda gènt ca s'u rrubbàv'.

Côm' érén' mpacciùt' côdd iurn!

Nta là chîs', tôtt quànt s' vuttàven',

da fôr', no ng'ér' nesciùn' ca non chiangî

a vedè tanta gènt calpestat.

Chidd ca stacinn nnànt a la port,

sôl' mbràcul' sapìnn fa:

scìnn p'aiutà i nfelìc’

e rumanìnn tôtt côm' stàtu'.

Sôl' nu huagliunôtt chiamàt don Dàved'

ch' la scàbela mmàn’ scia decènn:

«Non sciàt' dacènn natu pass avànt,

ca hôsc’ sim' murt tôtt quànt!»

S’ mettèren' i murt a carrescià,

u pôpel scî appriss ch' gran lamènt;

côm' i truhuàven', p’ la strad’,

i purtàven' tràt' a u Cummènt.

Chi scìa sôp’ na sègg', chi culcàt',

chi rôtt d' hàmm e chi d’ càp;

chi strazzàt’ d' facc' e chi d' vràzz,

i purtàven' minz murt e minz viv'.

Chi huaielàv’ a dèstr e chi a senéstr,

non s' putinn prôpri' tenè a mmènt.

Chi tenî parìnt e chi cainàt'

scinn chiangènn tôtt amaramènt.

U chiànt d'i mmàmm e d'i vecìn'

canuscènn i murt e i ferìt’

«Fégl, che mala sôrt e chè destìn!

Chi t'ha menàt' sta stampàta mbàcc'?».

Vulinn tôtt la vammàcia mmôcch

e scinn decènn p'i strad' du paìs':

«L'avèss pegliàt' na hòcc', a chi nu tòcch'

e no d' sta brôtta mort accìs! »

U chiànt d'i donn precesamènt

quanta cumpassiôn' t' facî!

Tremànn e ch' la vôcia dulènt

i vicchi' scìnn decènn: «Fégl' mî».

Nta la chîs' d' santa Chiara e san Francésch'

affelàren' i murt côm' a nu cemetèri';

i mùnec vòlen' èss hastehàt'

ca s' menàven' sôp' côm' a Giudèi'.

Putìm' laudà a chèdda gran Regìn',

Marî d' Matr e Gràzi' da u cil

gràzi' n' mànn sér' e matìn':

mantìn' u mônn tôtt san.

P' nui’ avìa èss na ruìn'

s' Marî n' vutàv' i spàdd;

i ppôrt du paìs' s' chiudìnn

c'avìnna passà i murt cu càrr.

Ddà ntèrr s'èra fatt nu scenarî

e nta la chîs' nu lagh' d' làhrem',

i ggènt non s'avìnn addô mètt

ca hôsc' n'appezzecàm' tôtt i pànn.

Quànn Marî vètt adaccussé,

la purtàren' nta la chîs' cammenànn

e la pusàren' mminz a la navàt'

addô u fuch' non putìa arruhuà.

Rumàs' chèdda chîs' scunzelàt',

Marî d' Matr e Gràzi' accussé rumàs'

chèdda gran Matr mminz a la navàt'

chèdda ca du Rusàri' u nôm' tén'.

Rumàs' chèdda Santa spatalàt';

e che mpressiôna brôtt t' facî

s' la tenìv' a mmènt la vutàr'

totta quanta spugliàt' e sènza cér'.

Trè o quàtt persùn' éren' rumàst

ca s' dacinn curàgg' ch' Marî,

scinn accuglènn la cér' e l'apparàt

e ogn' ata côs' ca s' ardî.

Scuntrùbb l'arî e scuntrùbb la strad’

scuntrùbb u volt d' Marî,

s' vètt da u pôpel abbandunàt'

quànn tôtt quànt s' n' scéren'.

Chiangìnn i vetrùn' e i vetrìn',

chiangìnn pur' i pprét' d' la vî

quànn tôtt u pôpel s' n'anzév'

e i pport d'la chîs' s' chiudèren'.

Cunsederàt' i mmàmm e i ttàn'

e chi tenî la zit' precesamènt!

Tôtt la nott fôz' nu chiànt fenàt',

tôtt i ccàs' a lôtt rumanèren'.

Non avvencìnn nsimel' i mastr d'asc',

chi pegliàv' la sèrr e chi la chiàn',

chi purscìa chiùv' e chi tenàgl'

ch' l'asc' a preparà tôtt i ccàsc'.

Quànn fèz' iurn la matìn',

p'arrucurdà la fèsta sulènn,

p'arrucurdà côdd ônec' d' magg'

ca fôz' la ruin' d' trénta fegliôl',

l'acceprèhut' s' mettév' a predecà,

cchiô d' tôtt scia decènn a u Capétel'

che côsa mai' s' putìa fà

p'aiutà chèdd pôver' famégl'.

Screvèren' a u Giôdec' a l'Aggerènz,

ma sènza scriv', côdd già u sapî

e vóll abbiàrs sôbet' prèstamènt

p' refecà la côs' côm' scî.

Da u desàstr assai' mpressiunàt,

p' non sènt tôtt la curiunàt',

fèz' chiama u Cap' d'u paìs'

e u midech' cherôrgh' e u supplènt.

S'accuglièren' tôtt i presènt

e u stacìnn facènn u parlamènt:

nata pèn' avèren' da passà,

ca, dopp murt, u sbàrr s'avìa fà.

Non s' sap' s’ ià frôtt d’u destin’

o puramènt d’ chiàng' ncôlch' peccàt’.

Dunàt Rézz v’ vól’  fà capé

ca mal’ s’ fac’ e mal’ s' nn'hav'.

Car' fràt mî non v'àgg’ chè ddic':

non passàt' avànt a i mméi parôl,

s’ àgg' fatt arrôr', m' cumpatìt'

ca sò nu mesaràbbel' lavuratôr'.

Car' segnùr' ca stacìt' nnànt,

v' cèrch' scùs' e v' cèrch’ lecènz,

s'agg' fàtt àrrôr', m' scusàt,

l'avita cumpaté la deffarènz.

Car' frat’ mî, non v'àgg' che ddic':

d' mal' e bbén' truhuàm' l'uccasiôn'

d’ recôrr sèmp a Marî,

èdd sôp' d' nui' ià la padrôn’.

Matr d' mesarecôrdi' sèmp éi'

e n' cummôgl' cu mànt sui'.

V l'àggia dic' propri' côm' éi,

ca sò sèmp brôtt i peccàt' nust.

Matr d' mesarecôrdî sèmp éi,

prèh' u Sui' Fegliùl’ sèmp p’ nui’.

Biàt chi d’ côr’ s’ nchin,

cussé la Matr d' Gràzi' n' perdôn'.

Chiàng' Montemelôn', Banz e Inzàn',

Montepelùs', Opped' ch' gran lamènt,

Spenazzôl e l’Aggerènz cu fazzelètt mmàn’

ca sò mmenùt’ a muré ch'i pid' lôr.

Chiàngen' i frestìr' e i paisàn':

Inzàn' hàv' avùt' u cchiô delôr,

hàv' avùt' la mort e la ruin'

e fôrt nquantetàt' ca non s' capî.

D' stu mônn aspettàm’ la fin',

fin’ no ng' nn'éi' e non hàv’ nôm';

cumpàrm ca u Segnôr nui' u servìm',

accussé da u cil’ n’ mànn u dôn'.

 


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