Cenni biografici Don Rocco Scazzariello è nato a Genzano di Lucania (Potenza) nel 1923. Ordinato sacerdote nel 1948, ha svolto il suo apostolato tra la gente umile e laboriosa dei campi, in veste di cappellano degli assegnatari dell'Ente Sviluppo di Puglia e Basilicata, oggi ESAB (Ente Sviluppo Agricolo di Basilicata). Come insegnante di religione e di educazione musicale nelle scuole statali, si è distinto nella formazione spirituale e culturale dei giovani. Si è reso promotore di una nobile iniziativa socio-educativa, quella di aver costituito a Genzano il complesso bandistico «Santa Cecilia», da lui stesso diretto, che gli ha meritato un attestato di benemerenza da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, che lo autorizza a esercitare la professione di Maestro - Direttore di banda. Quasi inosservato, a causa della sua modestia, dopo un lungo e paziente lavoro di studio e di ricerche, ha condotto a termine la raccolta "Canti popolari e altri testi di tradizione orale raccolti a Genzano di Lucania" che lo ha tenuto impegnato per oltre quindici anni. Ha composto un dizionario dialettale ed una commedia di ambiente. Recentemente scomparso, si era impegnato negli ultimi anni alla stesura di un Ricettario gastronomico lucano. |
Don Rocco Scazzariello |
Dalla raccolta "Canti popolari ...": U 'mbirn 'nta la chìs d' la Madonn.
Il canto rievoca una terribile disgrazia
verificatasi il giorno 11 maggio 1845, domenica di Pentecoste, nella chiesa di
Maria SS. delle Grazie, Protettrice di Genzano. Ricorrendo in detta data la
festa in onore della Madonna, come al solito, ci fu la solenne processione con
la partecipazione di molti pellegrini venuti da paesi limitrofi, a conclusione
della quale, durante la messa cantata, il predicatore stava tessendo il
panegirico della Madonna.
Per cause imprecisate, probabilmente per
effetto del calore dei molti ceri accesi, uno di questi, spezzatesi, cadde
sull'altare maggiore e provocò un incendio di notevoli proporzioni che, tra
l'altro, distrusse quasi completamente i sontuosi addobbi installati nella
chiesa.
Nella calca una trentina di persone
persero la vita, mentre moltissimi furono i feriti, specialmente tra bambini e
donne incinte. Il sangue freddo dell'allora ventunenne Davide Mennuni, che
intervenne con una sciabola sguainata per regolare l'uscita dalla
chiesa,scongiurò una vera e propria catastrofe. E' l'unico canto, di cui si
conosce l'autore: un certo Donato Rizzi, «miserabile contadino». Di lui nulla
di più si sa. Forse morì tra il 1859-61.
UN INFERNO NELLA CHIESA DELLA
MADONNA A Te ricorro, fonte di pietà, Monarca del cielo, o mio gran
Signore. Dammi estro e aiutami per la
strada dello sconquasso che avvenne il
giorno Tuo. Maria Madre di Grazie
Immacolata, tenete la potenza e la corona che l'Eterno Padre a voi ha
donato; potete voi salvare gli uomini
della terra, potete salvare tutti i dannati, quelli che sono più indegni
peccatori. Con la santa Grazia beata potete operare ogni momento. Spirito Santo mio, metti riparo, Te le devo confidare queste due
parole, fa' che la mente mia non si
distragga, io devo raccontarle a tutti
questi signori. Se volete sentire uno spasimo, consideratela solamente voi la potenza di Dio e, che
peccato! povera gente che vi è
incappata. Ovunque circola la notizia e parimenti sopra il Monitore: «Che è successo in Genzano?» Vi è stata la morte e il
terrore. Il mille ottocento quarantacinque avvenne questo
fatto, si doveva fare una festa il giorno della Pasqua delle
rose. Era l'anno dopo della mala
annata quando avvenne questo brutto
fatto, si doveva fare la festa di Maria Madre di Grazie
miracolosa. Con bande, con tamburi e
allegria dall'Ascensione noi
l'incominciamo, fino al sabato, con un bel nome, chè dobbiamo fare la festa di
Maria. Con tanta gioia e suoni a
frotte, grandi e piccoli tutti vestiti a
nuovo per le strade del paese andavano di quella Pentecoste la
mattinata. Alla chiesa di san Pietro
andiamo prima, di là parte la processione; s'inizia con un grande ordine, tutta la gente segue con
devozione. Forestieri e paesani con la
corona in mano andavano recitando il Rosario
per la strada; la statua stava ben difesa scortata da quattro guardie
d'onore. Il popolo si sentiva tutto
sazio; andiamo ad accompagnare Maria
Madre di Grazie. La dobbiamo accompagnare fino
all'ultimo, giusto come vuole la tradizione. Andavano appresso tutti,
chiedendo grazie, ma la Madonna non ne poteva
fare: il Signore aveva destinati quelli che sarebbero morti
soffocati. II cattivo presagio che ci diede
Maria lo prese dallo sparatore; un petardo da lontano si partì e andò nella guantiera di don
Nicola. Rimase più freddo lui della
neve, se lo avessero salassato non
sarebbe uscito sangue. Tutta la gente che gli stava
dirimpetto: «Potete digiunare (disse) la
giornata di oggi» Raccolsero da terra i denari e li misero di nuovo nella
guantiera. La festa si faceva ancora più
solenne, andiamo appresso a Maria con
grande fede. Andiamo appresso con un grande
amore, andiamo a riporla nella casa
sua. Venne l'apparato per quel giorno e si addobbò la chiesa alla
stessa ora. Furono poco accorti nel
guarnirla, fin che prepararono l'altare
maggiore, credendo di fare una cosa bella, fu la rovina di trenta figliole. Non si possono conoscere tutti i
fini, chi va per piacere e chi per
amore. Chi deve visitare questa Regina, deve andare con tutto il cuore. Siamo giunti alla Messa cantata con grande assistenza e tanti
suoni. Il predicatore che predicava, stava facendo il panegirico; stava dicendo parole sacrate, verso di Maria diceva: «Maria, facci grazie,
stamattina, Maria, il volto tuo come mi
appare! » Tutta la gente si batteva il
petto; pareva che grazie non ne volesse
concedere. Il Signore aveva destinato quelli che sarebbero morti
soffocati. Sant'Antonio che fu il reo andò a spezzare un lume di
candela, un lume di candela appicciata e si bruciò tutto l'apparato. Quando il predicatore voltò
l'occhio e vide che la chiesa andava in
fiamme: «Maria Madre di Grazie com'è
stato? ora si brucia tutto l'apparato!» Il popolo stava dirimpetto e nessuno di loro se lo poteva
immaginare. Il sacerdote che doveva
celebrare, stava ascoltando quello che
diceva; poi volle salire sopra l'altare, volle salirvi subito in quel
momento; fece per spegnerne una e si
appicciarono cento e tutta la chiesa pareva un
fuoco ardente. Si sente una voce strillare e la sentono i tre quarti della
gente: «Vedete, popolo, di poter
scappare di dentro a questo brutto fuoco
ardente. Si misero a scappare per la
navata e nella chiesa fu un terrore: tanto ce n'era di gridi e
pianti, che non si capiva più una
parola. Il maggior dolore era delle
donne gravide e quelle che tenevano i figli
nelle fasce; le trovarono tutte quante sotto
sopra, e li a terra fu fatta una salata
(rovina). A sentire quelle grida ti si
schiantava il cuore; chi saltava addosso e a chi si
pestava il capo. Povere donne e povere figliole, la più sventurata era chi stava
sotto. Che brutta cosa e che terrore, nel vedere quei cani arrabbiati! Si davano di mano tra di loro e si erano tutti quanti
stravisati. Chi chiamava il fratello e chi
la sorella, ma non c'era nessuno dei parenti
loro. Chi le tirava per le mani e chi
per i piedi, si slogavano le braccia di
dentro ai seni. Chi gridava: «Aiutaci, Madonna,
per pietà!» Chi invocava aiuto a quelli
allato: «Prendeteci per le braccia e
tirateci fuori!» Si stracciavano i panni loro a
brandelli. Chi gridava: «aiuto!» e chi
piangeva, tutti gli ori di dosso si
perdettero e, in mezzo a tanti guai e a
tanto trambusto, tanta di quella gente che se li
rubò. Com'erano impazziti quel giorno! Nella chiesa, tutti quanti si
spingevano, di fuori, non c'era nessuno che
non piangesse nel vedere tanta gente
calpestata. Quelli che stavano avanti alla
porta, solo miracoli sapevano fare: andavano per aiutare gli
infelici e rimanevano tutti come statue. Solo un giovanotto chiamato don
Davide con la sciabola in mano andava
dicendo: «Non fate un altro passo
avanti, se no oggi moriamo tutti quanti!» Si misero i morti a carreggiare, il popolo andava appresso con
gran lamento; come li trovavano, per la
strada, li portavano direttamente al
Convento. Chi veniva portato sopra una
sedia, chi coricato; chi rotto di gambe e chi di
capo, chi stracciato di faccia e chi
di braccia, li portavano mezzo morti e mezzo
vivi. Chi guaiolava a destra e chi a
sinistra, non si potevano proprio
guardare. Chi teneva parenti e chi cognati andavano piangendo tutti
amaramente. Il pianto delle mamme e dei
vicini nel riconoscere i morti e i
feriti: «Figlio, che mala sorte e che
destino! Chi ti ha sferrato questo calcio
in faccia?» Volevano tutti la bambagia in
bocca e andavano dicendo per le strade
del paese: «Li avesse colpiti una goccia o
un tocco, e non di questa brutta morte
uccisi! » Il pianto delle donne
specialmente quanta compassione ti faceva! Tremando e con la voce dolente i vecchi andavano dicendo: «Figlio
mio». Nella chiesa di S. Chiara e san
Francesco misero in fila i morti come in
un cimitero; i monaci dovevano essere
castigati chè vi passavano sopra come
Giudei. Dobbiamo lodare quella gran
Regina, Maria Madre di Grazia dal cielo grazie ci manda sera e mattina: mantieni il mondo incolume
d'ogni male. Per noi sarebbe stata una
catastrofe se Maria ci avesse voltato le
spalle; le porte del paese si chiusero che dovevano passare i morti con
il carro. Lì a terra si era fatto uno
scenario e nella chiesa un lago di
lacrime, le persone non avevano dove
mettersi che oggi ci bruciamo tutti i
panni. Quando Maria vide così, la portarono nella chiesa
camminando e la posarono nel mezzo della
navata dove il fuoco non sarebbe potuto
arrivare. Rimase quella chiesa sconsolata, Maria Madre di Grazie così
rimase quella gran Madre nel mezzo
della navata quella che del Rosario il nome
tiene. Rimase quella Santa spaurata; e che impressione brutta ti
faceva se lo guardavi l'altare tutto quanto spoglio e senza
cera. Tre o quattro persone vi erano
rimaste le quali si davano coraggio con
Maria, andavano raccogliendo la cera e
l'apparato e ogni altra cosa che si ardeva. Conturbata l'aria e conturbata
la strada, conturbato il volto di Maria, si vide dal popolo abbandonata quando tutti quanti se ne
andarono. Piangevano le vetrate e le
vetrine, piangevano anche le pietre della
via quando tutto il popolo se ne
usci e le porte della chiesa si
chiusero. Considerate le mamme e i padri e chi teneva la fidanzata
specialmente! Tutta la notte fu un pianto
finato, tutte le case a lutto rimasero. Senza posa insieme i mastri
d'ascia, chi prendeva la sega e chi la
pialla, chi porgeva chiodi e chi
tenaglie con l'ascia a preparare tutte le
casse. Quando fece giorno la mattina, per ricordare la festa solenne, per ricordare quell'undici di
maggio che fu la rovina di trenta
figliole, l'arciprete si mise a predicare, soprattutto andava chiedendo al
Capitolo che cosa mai si sarebbe potuto
fare per aiutare quelle povere
famiglie. Scrissero al Giudice ad Acerenza, ma, pure senza scrivergli,
quegli già lo sapeva e volle avviarsi subito
prestamente per verificare la cosa come
andasse. Dal disastro assai
impressionato, per non sentire tutta la gente, fece chiamare il capo del paese e il medico chirurgo e il
supplente. Si riunirono tutti i presenti e lo stavano facendo il
parlamento: un'altra pena ebbero da
soffrire, ché, dopo morti, l'autopsia
doveva farsi. Non si sa se è frutto del
destino oppure di piangere qualche
peccato. Donato Rizzi vi vuol fare capire che male si fa e male si riceve. Cari fratelli miei, non ho che
dirvi: non passate avanti alle mie
parole, se ho fatto errori, vogliatemi
compatire che sono un miserabile
lavoratore. Cari signori che mi state
davanti, vi chiedo scusa e vi chiedo
licenza, se ho fatto errori, perdonatemi, dovete compatirla la differenza. Cari fratelli miei, non ho che
dirvi: nel male e nel bene troviamo
l'occasione di ricorrere sempre a Maria, essa su di noi è la padrona. Madre di misericordia sempre è e ci protegge sotto il manto
suo. Ve lo devo dire proprio com'è: son sempre brutti i peccati
nostri. Madre di misericordia sempre è, prega il suo Figliolo sempre per
noi. Beato chi di cuore s'inchina, così la Madre delle Grazie ci
perdona. Piange Montemilone, Banzi e
Genzano, Montepeluso, Oppido con gran
lamento, Spinazzola e Acerenza con il
fazzoletto in mano, che sono venuti a morire con i
piedi loro. Piangono i forestieri e i
paesani: Genzano ha avuto il più gran
dolore, ha avuto la morte e la rovina e furti in quantità da non
credersi. Di questo mondo aspettiamo la
fine, fine non ce n'è e non ha nome; secondo che il Signore noi
serviamo, così dal cielo ce ne manda il
dono. |
U 'MBIRN ‘NTA LA CHÌS' D' LA
MADONN A Tè recôrr,
font d' piatàt', Munàrch' d'u cil', o mî gran' Segnôr'. Dàmm l'ari' e aiôtem' p' la strad' d'u scunquàsc' ca fôz' u iurn Tui'. Maria d' Matr e Grazi' Mmaculàt', tenìt' la putènzi' e la crôn' ca u Tèrn Patr a vui' ha dunàt'; putìt' vui' salva l'ùmen' d'la tèrr, putìt' salvà tôtt i dannàt', chidd ca so cchiô ndègn' peccatùr'. Ch' la santa Grazia beiàt' putìt' agetà pônte e ôr'. Spéret' Sant
mî, mitt repàr', T' l'àggia cunfedà sti ddôi' parôl', non m' fa la mènta valeià, î l'àggia cuntà a tôtt sti segnùr'. S' vulìt' sènt
nu spelàm', cunsederàtel' sulamènt vui' la putènzia d' Dî e, che peccàt' ! Pôvera gènt ca ng' so 'ncappàt'. P'u mônn vai'
l'annumenàt' e ancamènt sôp' a u monnetôr': «Chè ià succìss nta Inzàn?» ià stat' la mort
e u terrôr'. U mèll ottecìnt ca ià stat' e i quarantacénq' fôz' sta côs', s'havìa fa na festevetàt' u iurn d'la
Pasqu' d'i rrôs' . Era l’ann apprìss d'la mala annàt' quànn succèss sta brôtta côs', s'havia fa la festevetàt' d' Marî Matr e Grazi' mbraculôs'. Ch' band, ch'
tammôrr e allegrî da l'Ascensiôn' nui' l'accumenzàm', fin' a u sàbet', ch' nu bbèll nôm', c'hàma fa la fèsta d'Marî. Ch' tanta
prisc' e sun' a curienàt', gruss e zécch' tôtt vestùt' nuv' p'i strad' d'u paìs' s' n' scinn, d' chèdda Pentacôst la matenàt'. A la chîs' d' sant Pitr sciàm' apprim', da ddà s' prencépi' la preggessiôn'; s' prencépi’ ch’ nu gran sestém', tott la gènt vai' ch' devuziôn'. Frestir' e
paisàn' ch' la crôn' 'mmàn' scìnn decènn
u Rusàri' p' la strad'; la statua stacî bbèn' guarnìt' accumpagnàt' da quàtt guardi' d'unôr'. U pôpel'
s' sentî tôtt sazi'; sciàm' aggiuntà Maria d' Matr e Grazi'. L'hàma accumpagnà fin' all'ôtem', giôst cóm' vôl' la tradeziôn'. Scinn apprìss tôtt, cercànn grazi', ma la Madônn non n' putia fa: u Segnôr' l'havia destenàt' chidd c'havinna muré suffucàt'. U mal' sègn'
ca n' déz' Marî u pegliàv' da sôp' a u sparatôr'; nu pizz da la lôngh' s' partév' e scév' nta la vantir' d' don Necôl'. Rumàs' cchiô
frédd édd d' la név', s'u sagnàven'
non anzî sangh' fôr'. Tôtt la gènt
ca stacìa ntrecér': «Putit’ degiunà la iurnàt' d' hôsc'!» Pegliàren' da
ntèrr i denàr' e i metteren' arrét' nta la vantir'. La fèst s' facî cchio ca ér', sciàm' appriss a Maria ch' granda féd'. Sciàm'
appriss ch’ nu grand amôr', sciamela a pusà a la casa sôv'. Vènn l'apparat'
chèdda dî e s' vestév' la chìs' a la stèss'ôr'. Fôren' pécch' accôrt a u vestérl, fénca preparàren' la vutàra maggiôr', credènn d' fa na côsa pulìt', fóz' la ruìn d' trénta fegliôl'. Non s' pônn
sapé tôtt i fin', chi vai' p' piacer' e chi p'amôr'. Chi hàva vesetà sta Regìn', hàva scé ch' tôtt u côr'. Sim' arruhuàt'
a la Méssa cantàt' ch' grand assestènz e tànta sun'. U predecatôr' ca predecàv', stacî facènn u panagérech' ; stacî decènn parôl' sacràt', vèrs d' Marî i ddecî: «Marî, fànn gràzi', stamatìn', Marî u vôlt tui' côm' m' par'!» Tott la gènt
s' hrattàv' u pitt; parìa ca gràzi' non n' vulìa cuncéd. U Segnôr' l'havia destenàt' chidd c'havìnna muré suffucàt'. Sant Antoni' ca fôz' u réh' scév' a spezza nu lum' d' cannél', nu lum' d' cannél' appezzecàt' e s' ardév tôtt l'apparat'. Quànn u predecatôr' vutàv' l'ùcchi' e vètt ca la chîs' s' ardî': «Maria d' Matr e Grazi' côm' ià stat'? Mo s' ard tôtt l'apparàt'!» U pôpel stacî ntrecér e nesciùn' d'
lôr' s'u putìa créd. U prèhut' c'havìa
celebrà, stacî sentènn a chidd ca ddecî; pô vulév' nchianà sôp' a la vutàr', vulév' nchianà
sôbet' a côdd mumènt; scév' p' stutà un' e s'appecciàren' cint e tôtt la chîs' parî nu fuch' ardènt. S' sènt na vôc' d' strellà e la sènten'
i tré ppàrt d' la gènt: «Vedit, pôpel, d' putè scappà da ént a stu brôtt fuch' ardènt! » S' mettèren' a scappà p' la navàt' e nta la chîs' fôz' nu terrôr': tànt ng' nn'ér' d' grid' e chiànt, ca non s' capìa cchio na parôl'. U cchiô delôr' ér' d'i dônn gràved' e chèdd ca teninn i fégl' mbassàt'; i truhuàren' tôtt quànt sotta sôp', e ddà ntèrr fôz' fatt na salàt'. Sentènn chidd grid' t' murî u côr'; chi zumpàv'
da sôp' e chi p' ncàp'. Pôver' donn e pôver' fegliôl', la cchiô sventuràt' ér' chi stacî sott. Che brôtta côs' e che terrôr', vedènn chidd
can' arrabbiàt'! S'
dacinn d' màn' lôr' ch' lôr' e s'èren' tôtt
quànt stravesàt'. Chi chiamàv' u fràt' e chi la sôr', ma no ng'ér'
nesciùn' d'i gènt lôr'. Chi i teràv' p'i mmàn' e chi p'i pid', s' n' menìnn i vràzz da nta i sén'. Chi gredàv': «Aiôten', Madônn, p' piatà!» Chi chiamàv'
aiùt' a chidd du lat': «Pegliàten' p'i vràzz e teràten' fôr!» S' n' meninn i pànn lôr' a pezzàt'. Chi gredàv': «Aiùt!» e chi chiangî, tôtt l'or' da ncùdd s' perdév' e, mmìnz a tanta huài' e tanta 'mbrùgl', tanta d' chèdda gènt ca s'u rrubbàv'. Côm' érén' mpacciùt' côdd iurn! Nta là chîs', tôtt quànt s' vuttàven', da fôr', no ng'ér' nesciùn' ca non chiangî a vedè tanta gènt calpestat. Chidd ca stacinn nnànt a la port, sôl' mbràcul' sapìnn fa: scìnn p'aiutà i nfelìc’ e rumanìnn tôtt côm' stàtu'. Sôl' nu huagliunôtt chiamàt don Dàved' ch' la scàbela mmàn’ scia decènn: «Non sciàt'
dacènn natu pass avànt, ca hôsc’
sim' murt tôtt quànt!» S’ mettèren' i murt a carrescià, u pôpel
scî appriss ch' gran lamènt; côm' i
truhuàven', p’ la strad’, i purtàven' tràt' a u Cummènt. Chi scìa sôp’ na sègg', chi culcàt', chi rôtt d' hàmm e chi d’ càp; chi strazzàt’ d' facc' e chi d' vràzz, i purtàven' minz murt e minz viv'. Chi huaielàv’ a dèstr e chi a senéstr, non s' putinn prôpri' tenè a mmènt. Chi tenî parìnt e chi cainàt' scinn chiangènn tôtt amaramènt. U chiànt d'i mmàmm e d'i vecìn' canuscènn i murt e i ferìt’ «Fégl, che mala sôrt e chè destìn! Chi t'ha menàt' sta stampàta mbàcc'?». Vulinn tôtt la vammàcia mmôcch e scinn decènn p'i strad' du paìs': «L'avèss pegliàt' na hòcc', a chi nu tòcch' e no d' sta brôtta mort accìs! » U chiànt d'i donn precesamènt quanta
cumpassiôn' t' facî! Tremànn e ch' la vôcia dulènt i vicchi' scìnn decènn: «Fégl' mî». Nta la chîs' d' santa Chiara e san Francésch' affelàren'
i murt côm' a nu cemetèri'; i mùnec
vòlen' èss hastehàt' ca s'
menàven' sôp' côm' a Giudèi'. Putìm' laudà a chèdda gran Regìn', Marî d' Matr e Gràzi' da u cil gràzi' n' mànn sér' e matìn': mantìn' u mônn tôtt san. P' nui’ avìa èss na ruìn' s' Marî n' vutàv' i spàdd; i ppôrt du paìs' s' chiudìnn c'avìnna passà i murt cu càrr. Ddà ntèrr s'èra fatt nu scenarî e nta la chîs' nu lagh' d' làhrem', i ggènt non s'avìnn addô mètt ca hôsc' n'appezzecàm'
tôtt i pànn. Quànn Marî vètt adaccussé, la purtàren' nta la chîs' cammenànn e la pusàren' mminz a la navàt' addô u fuch'
non putìa arruhuà. Rumàs' chèdda chîs' scunzelàt', Marî d' Matr e Gràzi' accussé rumàs' chèdda gran Matr mminz a la navàt' chèdda ca du
Rusàri' u nôm' tén'. Rumàs' chèdda Santa spatalàt'; e che mpressiôna brôtt t' facî s' la tenìv' a mmènt la vutàr' totta quanta
spugliàt' e sènza cér'. Trè o quàtt persùn' éren' rumàst ca s'
dacinn curàgg' ch' Marî, scinn accuglènn la cér' e l'apparàt e ogn' ata côs' ca s' ardî. Scuntrùbb l'arî e scuntrùbb la strad’ scuntrùbb u volt d' Marî, s' vètt da u pôpel abbandunàt' quànn tôtt
quànt s' n' scéren'. Chiangìnn i vetrùn' e i vetrìn', chiangìnn pur' i pprét' d' la vî quànn tôtt u pôpel s' n'anzév' e i pport d'la chîs' s' chiudèren'. Cunsederàt' i mmàmm e i ttàn' e chi tenî la zit' precesamènt! Tôtt la nott
fôz' nu chiànt fenàt', tôtt i ccàs'
a lôtt rumanèren'. Non avvencìnn nsimel' i mastr d'asc', chi pegliàv' la sèrr e chi la chiàn', chi purscìa chiùv' e chi tenàgl' ch' l'asc' a preparà tôtt i ccàsc'. Quànn fèz' iurn la matìn', p'arrucurdà la fèsta sulènn, p'arrucurdà côdd ônec' d' magg' ca fôz' la ruin' d' trénta fegliôl', l'acceprèhut' s' mettév' a predecà, cchiô d' tôtt scia decènn a u Capétel' che côsa mai' s' putìa fà p'aiutà chèdd pôver' famégl'. Screvèren' a u Giôdec' a l'Aggerènz, ma sènza scriv', côdd già u sapî e vóll abbiàrs sôbet' prèstamènt p' refecà la
côs' côm' scî. Da u desàstr assai' mpressiunàt, p' non sènt tôtt la curiunàt', fèz' chiama u Cap' d'u paìs' e u midech'
cherôrgh' e u supplènt. S'accuglièren' tôtt i presènt e u stacìnn facènn u parlamènt: nata pèn' avèren' da passà, ca, dopp murt, u sbàrr s'avìa fà. Non s' sap' s’ ià frôtt d’u destin’ o puramènt
d’ chiàng' ncôlch' peccàt’. Dunàt Rézz
v’ vól’ fà capé ca
mal’ s’ fac’ e mal’ s' nn'hav'. Car' fràt mî non v'àgg’ chè ddic': non passàt'
avànt a i mméi parôl, s’ àgg'
fatt arrôr', m' cumpatìt' ca sò nu mesaràbbel' lavuratôr'. Car' segnùr' ca stacìt' nnànt, v' cèrch' scùs' e v' cèrch’ lecènz, s'agg' fàtt
àrrôr', m' scusàt, l'avita cumpaté la deffarènz. Car' frat’ mî, non v'àgg' che ddic': d' mal' e bbén' truhuàm' l'uccasiôn' d’ recôrr sèmp a Marî, èdd sôp' d' nui' ià la padrôn’. Matr d' mesarecôrdi' sèmp éi' e n' cummôgl' cu mànt sui'. V l'àggia dic' propri' côm' éi, ca sò sèmp brôtt i peccàt' nust. Matr d' mesarecôrdî sèmp éi, prèh' u Sui' Fegliùl’ sèmp p’ nui’. Biàt chi d’
côr’ s’ nchin, cussé la Matr d' Gràzi' n' perdôn'. Chiàng' Montemelôn', Banz e Inzàn', Montepelùs',
Opped' ch' gran lamènt, Spenazzôl
e l’Aggerènz cu fazzelètt mmàn’ ca sò
mmenùt’ a muré ch'i pid' lôr. Chiàngen' i frestìr' e i paisàn': Inzàn' hàv' avùt' u cchiô delôr, hàv' avùt'
la mort e la ruin' e fôrt nquantetàt' ca non s' capî. D' stu mônn aspettàm’ la fin', fin’ no ng' nn'éi' e non hàv’ nôm'; cumpàrm ca u Segnôr nui' u servìm', accussé da u cil’ n’ mànn u dôn'. |
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