Il brigante Nicola Summa, detto Ninco-Nanco
Giuseppe Nicola Summa, detto
Ninco Nanco, soprannome col quale era conosciuta la famiglia paterna, nacque ad
Avigliano il 12 aprile 1833 da Domenico Summa e Anna Coviello, figlia di Giuseppe Nicola Coviello anch'esso un tempo brigante della banda del Mecca, detto il "Cecato" di
Avigliano. La famiglia Summa aveva avuto vari guai con la giustizia. Uno zio
paterno, Giuseppe Nicola Coviello, famoso bandito, morí bruciato in una capanna
di paglia dove si era nascosto inseguito dalla polizia, mentre un altro zio
paterno dopo aver scontato dieci anni di reclusione per aver schiaffeggiato un
gendarme borbonico, uccise, per una questione di gioco, un cittadino e per
questo fu costretto a fuggire in Puglia, dove uccise il massaro presso cui
lavorava dandosi così al brigantaggio.
Gli esempi di violenza dei suoi parenti temprarono il carattere del giovane
Nicola, il quale iniziò ben presto ad avere problemi con la giustizia. Proprio
per una questione di gioco a venti anni ricevette un colpo di scure alla testa
che lo costrinse ad una lunga guarigione.
Tre anni più tardi Ninco Nanco venne assalito e pugnalato da cinque individui
che gli procurarono altri tre mesi di degenza, ma i cui nomi non fece alla
polizia, meditando di vendicarsi personalmente. Infatti dopo alcuni mesi uccise
a colpi di scure uno dei suoi feritori e per questo, dopo aver confessato il
delitto, fu condannato a dieci anni di carcere e rinchiuso nel carcere di Ponza,
da dove evase nell'agosto 1860. Una volta evaso tentó dapprima di arruolarsi
nelle file garibaldine, ma scartato si presentò a Salerno a Nicola Mennuni,
comandante della colonna insurrezionale di Avigliano, dal quale ebbe un'identica
risposta, anzi a stento scampò alla vendetta dei parenti della sua vittima
presenti in quella colonna.
Tornato ad Avigliano presentò domanda di arruolamento nella G.N., ma l'esito fu
lo stesso, come uguale fu il rifiuto alla sua richiesta di incorporamento nel
Battaglione Lucano. Da ritorno da Potenza un sacerdote gli consigliò di tenersi
nascosto, perché i nuovi governanti non avrebbero sorvolato sui suoi reati
passati, e così il guardiano di vigne di Avigliano decise di darsi alla
macchia, vivendo di rapine fino al 7 gennaio 1861 quando in casa di Giuseppe
Allamprese, proprietario di Ginestra, incontrò la banda di Crocco e si unì ad
essa.
D'ora in poi Ninco Nanco seguirà le orme di Crocco: nell'aprile 1861 fu
presente nella reazione del Melfese fino alla battaglia di Rionero;
successivamente fuggì con Crocco nell'Irpinia; il 10 agosto era a Ruvo del
Monte; il 13 gettò lo scompiglio in Avigliano, intenzionato ad occuparlo, ma
senza riuscirvi; con Borjés e Crocco partecipò alla scorreria nel mese di
novembre, finché nel febbraio 1862 ottenne un territorio su cui aveva
un'illimitata libertà d'azione con la sua banda (di quarantotto uomini),
rimanendo sempre disponibile agli ordini di Crocco in occasione di qualche
grande scorreria. Il 1° marzo 1862 assieme a Crocco, Caruso, Coppa e Cavalcante
nel bosco di Policoro, attese lo sbarco, ma invano, di soldati inviati da
Francesco II; il 25 aprile era in contrada Iscalonga sempre in compagnia di
Crocco e Caruso con i quali fu costretto alla fuga da due compagnie di
bersaglieri e da un reparto di Guardie Mobili; il 6 maggio nel bosco di Ruvo in
uno scontro contro la G. M. perse dieci uomini, mentre altri due li perse in
agro di Venosa il 9 giugno.
Per cinque anni in tutto il Vulture-Melfese e la valle di Vitalba (da Atella
fino al castello di Lagopesole) non ci fu un viaggio non disturbato dai briganti
o che non sfuggisse alla loro vigilanza. Chi si avventurava senza una adeguata
scorta armata (per esempio agli operai addetti ai lavori di costruzione della
strada Moliterno-Montalbano fu predisposta una scorta armata) veniva
sistematicamente depredato, come capitó al corriere postale ai primi di giugno
1861 nel territorio di Venosa, o a quello proveniente da Melfi nell'aprile 1864,
o al saccheggio effettuato a scapito di un carretto carico di sale e tabacco nel
luglio 1862 ad opera delle bande di Ninco Nanco e di Tortora.
Nel gennaio 1863, Ninco Nanco manifestò l'intenzione di arrendersi ed attirò in località Pesco di Merlo, nel bosco di Lagopesole il capitano del tredicesimo Reggimento fanteria Luigi Capoduro, il delegato di Pubblica Sicurezza Costantino Poliscila, quattro militi tra cui un certo Manghise di Sannicandro di Puglia e una guida. Nel corso di un banchetto, preparato per fugare nei militi ogni preoccupazione, i briganti saltarono addosso ai soldati che vennero tutti orribilmente seviziati.
Al capitano viene mozzato il capo e deposto, con un sasso tra i denti sopra un cumulo di pietre mentre al delegato vengono recisi i genitali.
La banda di Ninco Nanco partecipó anche al massacro di uno squadrone di
Cavalleggeri di Saluzzo comandato dal capitano Bianchi, nel marzo 1863 a S.
Nicola di Melfi, assieme alle bande di Crocco, Coppa, Caruso, Marciano,
Sacchetiello, Caporal Teodoro e Malacarne di Melfi. Dei 21 cavalleggeri 15
furono seviziati e successivamente uccisi. Anche Ninco Nanco partecipó alle
trattative di resa, nel settembre 1863, e con lui trattó lo stesso prefetto di
Potenza, Bruni, motivo per il quale fu costretto a dimettersi; Ninco Nanco peró
non si costituì e continuó a commettere omicidi (il 30 ottobre 1863), furti
(il 31 dello stesso mese e il 26 gennaio 1864) e ricatti.
L'8 febbraio 1864 la banda fu decimata presso Avigliano, perdendo 17 uomini,
triste presagio di ció che avvenne un mese dopo, il 13 marzo, quando presso
Lagopesole, Ninco Nanco e tre suoi compagni furono catturati dalla G.N. di
Avigliano capitanata da Benedetto Corbo, vecchio protettore di Ninco Nanco.
Appena catturato Ninco Nanco fu subito freddato dal caporale delle G.N., Nicola
Coviello, ufficialmente per vendicarsi della morte del cognato (ucciso da Ninco
Nanco il 27 giugno 1863), ma molto probabilmente fatto eliminare dallo stesso
Corbo per evitare che il brigante potesse svelare i suoi protettori, tra cui lo
stesso Corbo, e i molti manutengoli. Lo stesso Corbo due mesi dopo fu coinvolto,
assieme al giudice mandamentale di Avigliano, Giorgio Marrano, e al delegato di
P.S., Mariani, in un'altra vicenda di complicità con i briganti. I tre
individui furono accusati dal generale Baligno, comandante delle truppe di
Basilicata, di aver rilasciato il 12 aprile “senza avere nessuna autorità”
due salvacondotti a due briganti appartenenti alla banda Ninco Nanco, Luccia
Domenico e Colangelo Santo. I due salvacondotti, che valevano otto giorni,
furono ritirati dal capitano De Maria, comandante della 8° compagnia del 22°
fanteria, il 16 aprile, quando la compagnia arrestó i due individui che
scorrevano le campagne di Avigliano.
La morte di Ninco Nanco, il piú valido luogotenente di Crocco, fu salutata con
gioia da tutte le autorità della provincia e del regno, e la stessa stampa
riportó ampi resoconti con vivacitá di stile e ricchezza di particolari. Il
giorno successivo il suo cadavere veniva trasportato a Potenza, esposto al
pubblico ludibrio per qualche giorno ed infine seppellito in contrada detta "Sopra il Monte " nei pressi del camposanto.
Tra gli oggetti ritrovati addosso a Ninco Nanco ci furono: due pacchi di monete d'oro, sette piastre, una rivoltella, due fucili, una carabina, due orologi a cilindro d'argento e una catenella di oro. La morte eliminó fisicamente Ninco Nanco, ma non le polemiche che ne scaturirono in seguito tra il capitano della G.N. di Montemurro, Giovanni Padula, che accusó Benedetto Corbo di essere un manutengolo e un protettore di briganti. Infine i resti della banda di Ninco Nanco confluirono nella banda Ingiongiolo di Oppido Lucano.