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.Castello di Monteserico - Origine e storia ( Secondo le cronache di storici e studiosi )

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Non è facile determinare con esattezza, per scarsezza o irreperibilità di documenti, l’origine del Castello di Monteserico.

Alcuni autori fanno risalire la comparsa di strutture edificate sul monte già al 70 a.C., individuando in quella zona il sito in cui si era svolta più di una battaglia durante l’audace tentativo di Spartaco; altri sostengono “che, con maggior fondamento di vero, solo all’anno 929 di nostra era” si debba segnare la presenza di una primitiva costruzione nell’area occupata attualmente dal castello quando avvenne lo scontro “fra le forze collegate di Guaimaro II di Salerno e Landolfo I di Benevento, da un lato, e le genti dello stratega Anastasio, dall’altro, presso Monteserico , appunto, e per il quale scontro, sconfitto lo stratega, assai luoghi di Puglia furon, per opera Longobarda, ritolte ai Greci e ai Musulmani” (F.LACCETTI, “Castelli di Basilicata, Monte Serico” in “Napoli Nobilissima”, XII, Napoli aprile 1903).

Continuando, il Laccetti sottolinea che certamente a questo tempo Monte Serico non era fortificato, né lo scontro vi avvenne sopra il colle, allora vestito di foreste: ma poco discosto da esso invece dovette avvenire, cioè al piede nord-est, e propriamente presso la sponda sinistra del Basentello, affluente del Bradano, se, a ripetuto scontro, come ci pare naturale, è da riferirsi la scoperta testé fatta di un picciolo sepolcreto (...) onorato suggello in che furono chiusi i pochi guerrieri Longobardi di vincitori principi di Salerno e Benevento, che contro Anastasio pur trovarono la morte” (F.LACCETTI, op. cit.). Il Laccetti fa riferimento, in questo passo, a delle tombe rinvenute nel 1902 nei pressi della sponda sinistra del Basentello che proverebbero l’avvenuto scontro in quel luogo, cosa che invece nega lo Schipa, individuando il luogo dello scontro in una zona molto distante da Monteserico: “(...) Erano trecento i Salernitani, e col loro principe occupavano una stretta gola presso il Basentello, tra Acerenza e Venosa” (M.SCHIPA,  “Storia del principato Longobardo in Salerno”, in “Arch.stor. per le prov. Napol..”, XII (1887), cap. VI).  

Il primo storico a menzionare in maniera esplicita Monte Serico è l’abate cassinese Amato, il quale descrive in una sua cronaca latina che andrà perduta (di cui oggi si conserva una traduzione francese del XIII sec. “ L’ystoire de li Normant et la cronique de Robert Viscart “ ) le lotte che, all’inizio del XI sec., vedevano Normanni e Bizantini contrapposti per il dominio dei territori del Sud Italia.

“ Et li Normant qui bien lo sorent isserent de costé et entretante que lo exercit de lo empereor estoit en lo secret de Mont Pelouz, li Normant par grant hardiesse s’en vont a Monte Soricoy”.

“ Et aprés ci li Normant o victoire retornerent a Monte Sarchio, dout avoient mis le paveillon; mès pour ce que lo Chastel estoit deffendu par gent qui estoient dedens, quar non se poit prendre ne desrober; li Normant o tout la bandiére de lor seignor, qu’ils menerent en prison s’entornerent...a Melfe”.  

“I Normanni si erano accresciuti di forze; e quando il nuovo catapano mosse nel settembre1041 per assediarli in Melfi, ove si trovavano raccolti sotto il comando di Astenolfo, gli uscirono incontro lasciando un presidio nella città. Occupava Exaugusto le giogaie di Montepeloso e negli aspri recessi dei monti e nelle folte boscaglie aveva tesi agguati per inviluppare i nemici che erano venuti in sino al castello Siricolo”.

“ Fatti accorti degli inganni, lentamente s’avanzavano i Normanni ed i loro alleati combattendo; non più di settecento dicesi, contro diecimila stanziati, e molti ausiliari. Con dubbia fortuna durava la pugna, e questi e quelli piegavano a vicenda sospingendosi. L’incerto cimento, è fama guardarsi dall’alto Guglielmo d’Altavilla, il quale infermo di quartana giaceva nella sua tenda; quando, visti balenare i suoi, come leone furibondo si lanciò nella mischia, e rianimati i fuggenti ne assicurò il trionfo. Tornati i Normanni con più ardire all’assalto, non ne sostennero l’urto, le mercenarie schiere bizantine. A sottrarsi dalla morte cercano ascondersi nelle selve, fuggono d’ogni parte; e quasi tutti i periti mavedoni, e moltissimi fra gli indigeni, miserabili avanzi si disperdono i seguiti per lungo tratto. Exaugusto s’arrende prigione. Allora, tentato indarno il castello di Montesericolo, trovandolo difeso, i Normanni tornarono trionfanti in Melfi”. (AMATO, II, 25 trad. in G.DE BLASIIS, “La insurrezione pugliese e la conquista normanna”, Napoli 1864).

Ricordando che la battaglia tra Bizantini e Normanni avvenne nel 1041, possiamo dedurre da questo passo almeno due elementi importanti: una prima considerazione riguarda l’appartenenza del presidio che possiamo attribuire in quell’anno ai Bizantini; una seconda riguarda le fortificazioni del castello che dovevano essere già di notevole entità visto che questo “non se poit prendre ne desrober”; la seconda considerazione permette di ipotizzare, come fa lo stesso Lorito, che il castello per trovarsi “in tanta efficienza bellica, evidentemente era stato costruito molto tempo prima” (E.LORITO, “Genzano di Lucania, Cronografia”, Napoli 1949).

Ad una differente conclusione si potrebbe arrivare dagli scritti di Pedio (T.PEDIO, “La Basilicata dalla caduta dell’Impero Romano agli Angioini”, vol.III, Bari, novembre 1987) che, nel narrare della battaglia del 1041, sostiene che “...da Venosa i Normanni si sono spinti nella valle del Bradano ed hanno il loro avamposto in un vecchio monastero che monaci di rito greco avevano costruito a Monteserico”.

A conferma di ciò il Ranieri (L.RANIERI, “Le regioni d’Italia, Basilicata”, Torino 1972) riferisce dell’esistenza, sulla sommità di Monte Serico, di “un castello preesistente all’arrivo degli Svevi, e con sottostanti grotte preistoriche abitate da monaci basiliani. Nei registri delle decime è documentata l’esistenza di un’arcipretura a Monteserico (anno 1310 Clerus Montissiculi; anno 1324 Archipresbiter et Clerici Montis Celicole)”.

Quale fosse, allora, la conformazione del monastero in relazione al castello e quali le aggiunte apportate alla costruzione dai Normanni per dargli carattere difensivo è difficile a dirsi.

Diversa è l’opinione, riguardo all’origine del castello, del Fortunato che attribuisce la costruzione di questo a Federico II:

“Non in Sicilia, come si crede comunemente, ma in Puglia Federico fermò di preferenza dimora. E fu per rendergliela più attraente e più grata che Puglia e Basilicata si copersero, allora, di quelle mirabili moli, che il tempo ha solo in parte rispettato: la reggia di Foggia, la cittadella di Lucera, la fortezza di Bari, i castelli di Andria, di fiorentino e di Lagopesole, le rocche di Ascoli, di Trani, di Bisceglie, di Brindisi e di Gioia, i manieri, le case, i rifugi di Apricena, dell’Incoronata, di Orta, di San Gervasio, di Monteserico e del Garagnone; quei rifugi, specialmente dei boschi appartati e remoti, dove gli piaceva ogni tanto sostare nella faticosa e vagabonda sua vita, nascondendosi a tutti, abbandonandosi alla caccia, che era una delle sue più vive, più grandi passioni.” (G.FORTUNATO, “Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba” a cura di T.PEDIO, Lacaita editore, 1968)

In realtà l’impianto del castello di Monteserico dimostra la sua appartenenza, più che all’architettura sveva, caratterizzata da una tipologia a corti interne racchiuse da una costruzione poligonale con dei massicci torrioni sporgenti agli angoli, a quella normanna, caratterizzata dal tipo a donjon.

A sostegno di tale tesi Willemsen, parlando del castello di Lagopesole, giustifica la presenza del battifredo nel cortile più piccolo ipotizzando la costruzione federiciana del castello su delle preesistenze.

Il riferimento a Castel Lagopesole è motivato per almeno due ragioni: la prima è di carattere tipologico, infatti pur mostrando evidenti differenze nel trattamento delle superfici dell’involucro murario (in castel Lagopesole è di tipica fattura sveva) il “tipo” rimane lo stesso; lo stile, che nel castello di Monteserico è difficile leggere con chiarezza, rapporta in modo più chiaro il battifredo di Lagopesole a precise coordinate spazio-temporali ma, cosa più interessante, il medesimo “tipo” esprime, in entrambi la permanenza dei suoi aspetti essenziali e pone in evidenza il carattere invariabile della struttura formale a “donjon”. La seconda, di carattere distributivo, riguarda la disposizione dei vani e delle aperture: in entrambi si accede dal primo piano in un unico ambiente collegato con una botola alla cisterna, voltata a botte, che occupa l’intero piano inferiore.

In definitiva, sembra verosimile che, pur su preesistenze difficilmente collocabili nel tempo, la costruzione del castello, avvenuta in più fasi, sia incominciata tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo con, in successione, l’edificazione del corpo centrale, la sua fortificazione e la costruzione delle mura perimetrali; queste ultime potrebbero rientrare negli interventi effettuati da Ottone II di Sassonia nel 980, come sostiene il Lorito: “Verso il 980 avvenne che Ottone II, dopo aver invaso la Puglia, dispose che ai confini delle regioni occupate venissero creati dei posti di difesa da servire anche come luoghi di rifornimenti per la progettata impresa della Calabria. Allora il castello venne trasformato in fortezza”.

Riguardo alla tesi espressa dal Fortunato si ritiene che gli interventi operati da Federico II siano sicuramente successivi e, comunque, su una struttura già esistente, da inquadrarsi nella politica di sviluppo delle regioni sotto il suo governo.

Infatti l’imperatore affida l’amministrazione dei beni che la Corona possiede nei vari Giustizierati a magistri massariarum soggetti al controllo del gran Camerario; come si legge in Pedio “un magister massariarum Curie Terre Bari et Basilicate è preposto all’amministrazione delle massarie di San Nicola sull’Ofanto, di Lavello, di Gaudiano, di San Gervasio e di Monteserico nel Giustizierato di Basilicata e di quelle di Canosa, di Minervino, di Gravina e di Altamura in terra di Bari”.

L’intervento degli svevi su Monteserico può essere compreso nel programma di ristrutturazione delle antiche masserie o comunque di edifici preesistenti da adibire a sedi dei magister massarie; infatti “ad iniziativa di Federico II anche in Basilicata vengono ristrutturate le antiche massarie Curie: in ciascuna di esse è ricostruita in miniatura la domus, dove hanno sede il magister massarie, il suo notaio e i suoi scriba. E, intorno alla domus, viene costruita la curtis fortificata entro cui sono le abitazioni degli addetti alla massaria, il casalinum in cui sono riposti gli attrezzi da lavoro e quelli destinati agli artieri indispensabili per la costruzione dell’azienda, quello in cui si è sistemata la macina, i ricoveri degli animali, le fosse per la conservazione dei cereali e magazzini vari. Nel cortile della curtis è sempre una cisterna e in alcune, a San Gervasio, ad esempio, e a Lagopesole, anche una chiesa”.

Dalla descrizione degli ambienti così come si legge da questo passo di Pedio, è possibile pensare che il castello abbia subito maggiori interventi proprio in questo periodo; infatti , ritroviamo nel piano seminterrato, una fossa per la conservazione del grano più una serie di locali che , come abbiamo visto, caratterizzavano questo tipo di costruzione.

Federico II intorno al 1230 istituisce i provisores castrorum, ufficiali imperiali a cui è affidato il compito di controllare attraverso periodiche ispezioni, e garantire la perfetta efficienza di tutte le opere di difesa.

Nel gennaio del 1240 ristruttura questi uffici e divide il Regno in cinque distretti, ciascuno affidato ad un provisor alle cui dipendenze vengono affidati un notaio, tre scudieri ed un corriere. A coadiuvarli, i provisores scelgono in ogni centro abitato due probi viri, tenuti ad ispezionare due volte la settimana il castello e le fortificazioni del loro paese. Questi relazionano periodicamente al provisor da cui dipendono per metterlo in grado di tenere al corrente l’Imperatore dello stato dei castelli e delle fortificazioni del Regno.

Le prime relazioni fatte pervenire dai provisores denunziano lo stato in cui versano in genere questi castelli per cui, rifacendosi al principio introdotto da Guglielmo II, per cui la manutenzione dei castelli e delle fortezze doveva gravare sulle popolazioni interessate, Federico II indica le popolazioni tenute alla manutenzione dei 225 castelli e domusrege sparsi nel territorio del Regno di Sicilia. Di questi circa trenta sono i castelli nel territorio dell’attuale Basilicata che, con quelli pugliesi, fanno parte della circoscrizione assegnata al provisor Guido del Guasto.

Nelle disposizioni impartite da Federico II si legge che alla domus Montis Sericole dovevano provvedere gli Homines Montis Sericole. Questo testimonia che ancora nel 1240 esisteva l’antico borgo di Monteserico, oggi scomparso. Sempre riguardo alla manutenzione dei castelli, nel 1278 Carlo I d’Angiò impartisce delle disposizioni identiche alle norme promulgate da Federico II in materia.

Dopo la conquista angioina, anche in Basilicata sono gli stessi castelli, le stesse domus, gli stessi castra e sono sempre le stesse Università tenute alla manutenzione ordinaria degli stessi che il sovrano ed i suoi feudatari mantengono in perfetta efficienza per tenere le popolazioni in stato di soggezione. Sia che si tratti di lavori di ordinaria amministrazione o di ricostruzione di un castello o di ricostruzione ex novo a fundamentis  l’onere ricade sempre sulle popolazioni tenute a rimborsare le spese al sovrano, se il castello è regio, al barone, se è baronale.

Nelle norme emanate da Carlo I d’Angiò nel Giustizierato di Basilicata sono oggetto del provvedimento i castelli, le domus ed i castra di Abriola, Acerenza, Agromonte presso Lagopesole, Anzi, Boriano apud Lavellum, Brindisi di Montagna, Calvello, Cisterna, Gaudiano, Gorgoglione, Lagonegro, Lagopesole, Lavello, Maratea, Melfi, Montalbano, Montemarcone, Monte Serico, Muro, Pescopagano, Petrolla apudPesticium, Pietra d’Acino, Policoro, Rocca Imperiale, S. Fele, S. Nicola sull’Ofanto e Spinazzola.

In seguito le terre ed i feudi non vengono più assegnati direttamente al sovrano come ai tempi di Carlo I d’Angiò. Ora la Basilicata è suddivisa in grosse contee: Matera ed alcune terre del medio e basso Bradano fanno parte del Principato di Taranto; Potenza, Venosa e Monteserico feudi della Regina Sancia; Tricarico e Chiaromonte feudi di Giacomo di Sanseverino; Montescaglioso feudo di Bertrando del Balzo e, sul confine del Principato, Marsico, tenuta da Tommaso di Sanseverino, costituiscono le grandi contee che comprendono anche i feudi minori i cui baroni, in genere vassalli dei grandi conti, controllano la vita delle terre loro assegnate evitando il sorgere di fazioni nel ceto che si distingue dai minores.

Questa situazione di stabilità viene modificata dalla posizione assunta dal sovrano francese nei confronti di Benedetto VIII che non intende rinunciare tiara per consentire la soluzione dello scisma. Infatti Carlo VI abbandona a se stesso Luigi d’Angiò, sorretto solo dai baroni ribelli, disinteressandosi della lotta tra angioini e durazzeschi per assumere la posizione di arbitro nella soluzione dello scisma.

Molte sono le ripercussioni che si hanno nell’Italia meridionale, anche se nei feudi tenuti ancora dai Sanseverino vescovi e comunità monastiche non assumono posizioni contrastanti con quella del signore feudale e riconoscono come loro sovrano Luigi d’Angiò e legittimo pontefice Benedetto XIII, nelle province molti vescovi che hanno sostenuto l’angioino, ora che il Papa avignonese ha perduto la protezione del sovrano francese, riconoscono Bonifacio IX legittimo pontefice e molte comunità monastiche si uniformano alla posizione dell’abate di Montecassino, rimasto sempre fedele ai durazzeschi. Questa situazione ha come diretta conseguenza molti anni di battaglie e di avvicendamenti di reggenti che si concludono con la decisione di Ladislao di confermare la contea di Marsico a Luigi Sanseverino, di ratificare la concessione che Raimondo del Balzo, Principe di Taranto ha fatto a Stefano Sanseverino della contea di Matera e della Terra di Spinazzola in Basilicata.

Tutti i Sanseverino mantengono i loro feudi nel Principato, in Calabria, in Terra d’Otranto ed in Basilicata. I figli di Ruggero mantengono Tricarico e Chiaromonte e Tommaso la contea di Monteserico e la terra di Tursi. Con la discesa degli Ungheresi il dominio degli Angioini nell’Italia meridionale ed in particolare nel territorio occupato dal castello di Monteserico viene messo in discussione. Infatti i Sanseverino in questo tengono ancora Monteserico e Genzano, i due castra che la figlia di Giacomo del Bosco e di Aquilina Sancia ha portato in dote al conte Roberto di Corigliano.

Uomini del Sanseverino si spingono da Monteserico nelle campagne di Gravina (in mano agli ungheresi) e razziano animali che valuerunt ultra millequingentas uncias. Reagiscono gli homines di Gravina: armati muovono loro contro. Questi vengono massacrati ed il bestiame viene recuperato. Padroni della media valle del Bradano, gli ungheresi minacciano anche Genzano.

Perduta Monteserico, per evitare che anche il castello di Genzano cada nelle mani degli ungheresi e per impedire che questi possano, occupata Genzano, destinarvi nel castello un forte presidio, il conte Roberto ordina la distruzione del castello e di tutte le costruzioni che possano consentire agli ungheresi di destinarvi le loro milizie. Il castello viene distrutto e, tra le costruzioni che possono essere utilizzate a scopi militari, viene demolito anche il monastero delle clarisse fatto costruire da Aquilina Sancia.

A questo punto è importante raccontare una parte della storia di Aquilina Sancia che caratterizzò con la sua benevolenza lo sviluppo dell’area di Genzano e Monteserico di cui divenne signora ed ancora oggi i genzanesi le mantengono intitolata una piazza antistante il monastero.

Aquilina Sancia fu moglie di Arnao del Bosco, cavaliere catalano, che venne di Spagna in Italia sul finire del marzo 1297, al seguito dell’infante donna Violante d’Aragona quando costei veniva a sposare il duca di Calabria, Roberto d’Angiò, figlio di re Carlo II.

Il Munoz (F.MUNOZ, “Teatro genealogico delle famiglie nobili di Sicilia”, pag.164), parlandoci della nobile famiglia Bosco, ci dice appunto che, in occasione di quel matrimonio, tra i cavalieri catalani al seguito di donna Violanda, si trovava Arnao del Bosco, il quale, nel passaggio che ella fece in Napoli, non resistette dal seguirla anche in quella corte e quivi divenne maggiordomo dell’angioino.

Assai breve fu la dimora del maggiordomo Arnao alla corte di Napoli, se egli premorì a donna Violanda la quale, sposata nel 1297,era già morta nel 1302. La sua vedova Aquilina, passò poi in seconde nozze con un altro della famiglia Bosco, Guglielmo, come si rileva dal suo testamento, dove è detta “nobilis mulier, domina Aquilina de Monte Sericola, relitta quondam Guiilielmi de Bosco”. Di lui sappiamo che era ancora vivo nel 1313 quando Roberto d’Angiò lo mandò con altri baroni al fratello Giovanni, conte di Gravina, per combattere contro Federico d’Aragona, il quale con 46 vascelli era venuto a danno del regno e ne aveva recato non poco danno specialmente a Mola di Gaeta e nei luoghi circostanti. Aquilina ebbe da lui una figliuola, Antonella Margherita, la quale morì molto giovane e fu sepolta nella chiesa di S. Chiara in Barletta.

Nell’aprile dell’anno 1327 Aquilina, pensando la vita essere breve e la morte sempre in agguato e non volendo morire senza prima aver dato assetto alle sue cose terrene, fece testamento; ed istituì sua erede la figlia Giacoma Margherita, consorte al magnifico Roberto di Sanseverino. Che se poi la predetta Giacoma venisse a morire senza lasciare figliuoli la restante eredità passasse a Caterinella del Neto, sua nipote. Aquilina ebbe questa sua figliuola, Giacoma, dal primo marito Arnao del Bosco, e abbiamo visto come alla morte del padre Roberto d’Angiò, con la moglie Violanda, pigliasse a cuore la sorte della fanciulla e come nel 1320 la maritasse a Gerardo, duca di Alneto, con il quale ella partorì appunto la detta Caterinella. Ora la ritroviamo sposa di Roberto Sanseverino, ed infatti dopo la morte del Gerardo passò alle seconde nozze con Roberto di Sanseverino, conte di Carigliano e Terlizzi. (F.CHERUBINO,“Il testamento di Aquilina Sancia”).

Nell’anno 1501, pochi mesi dopo la caduta degli Aragonesi, Donna Creusa Palaganca di Trani, badessa del monastero di Santa Chiara di Genzano, tirava fuori il testamento della nobil donna Aquilina Sancia, colei che aveva fondato quel monastero e lo aveva dotato di molti beni. Le suore ne erano state spogliate da Ferdinando I d’Aragona; ed ora, abbattuta la dominazione della stirpe e mentre già stavano per accapigliarsi francesi e spagnoli, esse si affrettarono a rientrare nella possessione dei beni perduti prima che dalla nuova corte di Napoli giungesse qualche gentiluomo titolato a porre le mani su quelle lontane terre del napoletano. Certo, il loro animo dovè riempirsi di letizia dalle nuove che quell’anno provenivano dalla corte di Napoli, e le pie suore dovettero cantare lodi di ringraziamento al Signore per la caduta degli aragonesi. Piombava anche sulla famiglia di Ferdinando I, il re legittimo, il castigo di Dio, quel re che superbamente aveva mandato i suoi cavalli e giumenti ed i suoi armenti ad invadere i bei pascoli donati al loro monastero dalla cristiana Aquilina. Così il 4 novembre di quell’anno, avendo la badessa, donna Creusa Palaganca consegnato il vecchio documento ai suoi procuratori, Fra Tommaso Materano e Pasquale Valente detto Pantano, essi lo portarono al giudice di Genzano, Paladino Reale, ed a Angelo Bruno di Spinazzola, pubblico notaro del Regno di Sicilia, che avendo letto e recitato quell’”antiquum instrumentum testatum ac omni debita solemnitate munitum”, si recò insieme al giudice, ai procuratori del monastero ed altri testi a prendere possesso di quelle terre.

Dal testamento si rileva che Aquilina Sancia era signora di Monteserico di Genzano. Forse questi feudi erano stati dati dell’angioino a Guglielmo del Bosco, così come erano stati donati ad Arnao i castelli di Alife e Boiana.

Nel 1603 il castello di Monteserico era del genovese Grimaldi, nel 1613 dei Doria, alla fine del 1700 era posseduto da alcuni discendenti della famiglia Sancia, indi rimase abbandonato. Acquistato il 30 gennaio 1857 dai baroni Dell’Agli-Centi, fu venduto ai Cafieri il 30 marzo 1875; ma allora il castello era già divenuto un luogo inabitabile; il recinto, la corte adibiti ad ovili, mentre a causa delle intemperie ed al vandalismo dei custodi degli armenti, tutto l’edificio era andato in completa rovina. Appena Cafieri di Barletta si insediò nel castello, cominciò a far molestare dai guardiani i cittadini di Genzano, che colà si recavano per l’esercizio degli usi civici che dovevano e ne nacquero lotte a volte sanguinose.

In realtà le guardie di Monteserico furono, in ogni tempo, famose per la loro ferocia. I signori del castello mandavano in giro numerose guardie a cavallo per proteggere gli armenti e la proprietà dai predoni che infestavano il contado.

Spesso gli audaci predoni pagavano con la vita le gesta criminose, perché dai “froci”, come il popolo li nominava, non c’era da aspettarsi pietà. Giustizia sommaria veniva fatta sul posto e ciò per antichissima consuetudine e forse in omaggio ad un editto del re dei Longobardi, Rotari, del 643 che autorizzava i danneggiati ad uccidere gli autori del danno sorpresi in flagrante.

In realtà l’editto riguardava le manomissioni della proprietà, delle siepi, delle strade, ma venne abusivamente esteso ai danni campestri in genere, del resto anche la legge delle dodici tavole contemplava la pena di morte contro quelli che mutavano la faccia dei luoghi e distruggevano i confini.

Le guardie del Cafieri, volevano, a sproposito, ripetere le gesta dei “froci”.

Già in precedenza, nel 1870, l’indegno genzanese Savino Carbone, più che fittuario, sicario dei baroni Dell’Agli-Cetti si arbitrò di ridurre a seminatorio e quindi a chiudere le quattro carra di territorio adiacenti la cappella e che ne costituiva la dotazione e su cui la popolazione di Genzano, dopo la festa religiosa, era solito di celebrare la fiera. Le quattro carra di terreno vennero incorporate nella proprietà dei baroni e poi del Cafieri e la fiera non si poté più celebrare.

Non contento di ciò, complice il Carbone, il signor Cafieri cominciò ad impedire il passaggio sulle vie che attraversavano il latifondo col far scavare i fossi, piantare siepi, collocare catene di ferro infisse ai pilastri fatti fabbricare ai lati dei tratturi; spesso si usava violenza contro gli inermi cittadini. Il sindaco di Genzano, con opportune ordinanze, provvide a far rimuovere gli ostacoli e così ebbero origine altre liti che si sono protratte fino ai giorni nostri. Si tentò di impedire, così come era avvenuto per la fiera, il pellegrinaggio al santuario di Monteserico, ma questo secondo colpo non riuscì e giustizia venne fatta al popolo.

Per avere un’idea della dispotica richiesta del Cafieri, nel voler impedire il passaggio ai genzanesi sui tratturi e tratturelli, bisogna tener presente il numero veramente grande delle strade che intersecavano il Monteserico. Nella sola zona del Cafieri, oltre alle strade che menavano da un campo all’altro, esistevano:

  1. la “via del castello”, che partiva dal tratturo Palmira-Spinazzola-Corato ed arrivava al castello ove finiva;

  2. la via “cafrio o della regina” che cominciava dal tratturo di cui sopra, passava per la regina ed andava a raggiungere l’altro tratturo Spinazzola-Gravina;

  3. la via “passata dei buttari” che aveva inizio dal castello e andava ad incontrare il tratturo Gravina;

  4. la “via Isca della badessa” che andava dal tratturo Palmira-Spinazzola-Corato sino a quello di Gravina.

Per quanto riguarda i tratturi bisogna dire che quando il Monte Serico venne censito ai numerosi proprietari e si iniziò a dissodarlo e quindi a diminuire l’industria armentizia, cominciarono a sparire i riposi, utilizzati come aie, oppure dissodati e messi a colture. I tratturi, al pari di ogni cosa che sia di tutti e di nessuno, divennero facile preda dei frontisti che li usurparono e quantomeno li ridussero ad angusti viottoli.

Ciò avveniva mentre ancora erano in vigore il decreto di Ruggero II, che minacciava di morte chi avesse in qualsiasi modo impedito il transito degli armenti sui tratturi; il decreto di reintegra di Carlo V del 1549; il decreto del 1651che finalmente disponeva la compilazione di una carta topografica ed infine la legge del 26 gennaio 1865 del Governo Italiano che metteva i tratturi sotto la sorveglianza degli agenti demaniali, forestali e comunali. Quello che avvenne dei tratturi in questione lo si può vedere girando per Monteserico ove non sono scomparsi.

Il Cafiero ha il merito di aver restaurato all’esterno nella parte settentrionale e riattato all’interno il castello di Monteserico ed ha tolto all’incuria in cui era per le vicende passate: “un torriolo che minacciava rovina e non appartenente alla primitiva costruzione fu soppresso, il piano terra che formava ovile ed era ricolmo di letame fu vuotato e risanato, fu migliorato l’accesso all’interno, sistemato il complesso dei compresi ad uso di abitazione comoda ed alla cisterna provvista di riparo così che lunga vita resterà al baluardo”. (F.LACCETTI, “Il castello di Monteserico” da “Napoli Nobilissima”, vol.XII, Napoli 1903).

Le ultime gesta subite dal castello furono ad opera degli abitanti di Genzano. Costoro che vantano non sappiamo qual diritto spirituale sulla cappella che sorge sulla cima del colle presso il castello, incuorati dal sogno di un loro, vecchio di anni ed assai fervido nella venerazione del piccolo santuario, si recarono in massa al castello e si dettero a scavare, con ardore vivissimo, fin sotto di esso il fianco settentrionale del monte, per ricercarvi non sappiamo bene se immagini sepolte o tesori di cui è sempre ricca la fantasia popolare. E protrassero essi tanto, e per tanti dì, lo scavo, nulla mai rinvenendo e, ad onta delle proteste fatte dai guardiani del privato terreno, che ne risultò una estesa e ben profonda trincea, o squarcio nel masso, fatto di concrezione brecciosa, su cui il castello si sta, squarcio che oggi è una lesione fastidiosa alla solida cima rimasta già per tanti secoli intaccata (F.LACCETTI).

Dopo la grande guerra il tenente Simeoli comperò una porzione del feudo del Cafieri compreso il castello che, in seguito, passò nelle mani dei ricchi coloni Di Chio di Spinazzola; ora è proprietà pubblica del Comune di Genzano.

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