Ettore Lorito - SOTTO L'ARCO DI EROS - PARTE PRIMA

            

Il Monteserico


La plaga, che va sotto il nome di Monteserico, occupa i quattro quinti del territorio di Genzano.

Al tempo in cui avvennero i fatti che esponiamo, solo un terzo del latifondo era terreno sativo, il resto era coperto di lussureggianti boschi e di ricchi pascoli. L'appellativo di « serico » dato alla contrada era giustificato dalla qualità delle erbe, morbide come seta, che costituivano una specialità di quei pascoli profumati.

Confinava, e confina, con i territori di Spinazzola, Gravina, Altamura, dalla parte delle Puglie; con i territori di Montepeloso (Irsina), Palazzo S. Gervasio, Banzi e col rimanente territorio di Genzano, dalla parte della Basilicata.

Un tempo esisteva anche un borgo che portava lo stesso nome della contrada e che aveva le sue chiese, il suo parroco, il suo notaio, i suoi chierici, i suoi poveri, i suoi orfani; ne era signora Aquilina Sancia. La borgata contava duecentocinquanta famiglie di pastori e contadini; era una colonia agricola di Genzano. Scomparve tra il millequattrocento e il millequattrocentocinquanta, la popolazione si fuse con quella di Genzano dopo che le lotte ivi combattute, la malaria ed una fiera epidemia l'ebbero decimata.

Il Monteserico, ed il suo borgo, furono quasi sempre alla dipendenza della R. Corona; alcune volte vennero dati in feudo, altre volte in fitto.

Così passarono nelle mani di Isabella d'Aragona, di sua figlia Bona, regina di Polonia; poi vennero incorporati al Tavoliere delle Puglie; indi furono della marchesa Calabritto di Minervino; dei Doria e, dalla fine del millesettecento al principio del milleottocento, troviamo nel Monteserico, alcuni discendenti dei Sancia, ai quali si riferiscono gli avvenimenti registrati dall'anonimo cronista.

Il castello


Nel centro dell'ubertoso Monteserico sorge un rude maniero che porta lo stesso nome della contrada, fondato, in epoca remota, come luogo di villeggiatura; fu una villa di un ricco cavaliere romano, che aveva come stemma un serpente (il basilisco?) in atto di scalare un castello merlato e finestrato (1).

Ad opera di Ottone II, si provvide a trasformarlo in luogo di difesa; altre trasformazioni subì in epoche posteriori.

Il maniero, modesto nelle sue proporzioni, sorge sulla cima del monte che dà il nome alla contrada, a cinquecentocinquantasette metri sul livello del mare. È formato di un'ampia massa rettangolare, foggiata a scarpa, dalla parte inferiore, e continuata, al di sopra, da un basso maschio a forma di parallelepipedo.

Degni di rilievo sono i piombatoi, a forma di artistiche verande, e le preziose mensole di sostegno.

Ai piani terreni si accede direttamente dal portone; nell'interno vi è una breve corte quadrata che separa il maschio dalla massa esterna che lo recinge. Una scala a chiocciola, molto angusta, mena ai piani superiori occupati, al tempo degli avvenimenti narrati, il primo, dagli appartamenti dei castellani; i pochi locali del secondo piano, dalle vedette e dal personale di servizio. La cancelleria, gli alloggi per gli armigeri, i magazzini, le stalle, le cantine erano collocati nei locali terrani.

Il castello è unito alla spianata esistente a sud-est, a mezzo di un ponte levatoio, mentre, dagli altri lati, si erge a picco sulla nuda roccia.

Il profondo fossato che un tempo, pieno d'acqua, difendeva la parte che l'univa alla spianata, era stato trasformato, dagli ultimi Sancia, in una serra di fiori e metteva una nota gaia, vivamente contrastante con l'aspetto severo del fabbricato e col silenzio che regnava in quel luogo straordinariamente isolato.

All'arrivo dello sfortunato conte e dei bambini, il castello era abitato dalla contessa Berenice Xxxx, congiunta dei Sancia, ivi rinchiusasi, in volontario esilio.

Il cronista avverte, che allora era pericoloso avventurarsi da solo e disarmato per quelle campagne, sebbene la castellana mandasse in giro numerose guardie a cavallo, chiamate « froci », a causa del loro aspetto poco rassicurante e della loro eccessiva severità, al fine di proteggere la proprietà e gli armenti dai ladri che infestavano il contado.

Spesso, gli audaci predoni, pagavano con la vita le loro gesta criminose, perché dai « froci » non c'era da aspettarsi pietà; giustizia sommaria veniva fatta e sul posto, ciò per antica consuetudine e in forza dell'editto di Rotari del 643 che autorizzava i danneggiati a uccidere gli autori del danno campestre, colpiti in flagranza (2).

Qui passarono la loro infanzia i due nobili orfani sotto la guida della vecchia zia, di una rigida istitutrice, di un vecchio professore, che adempiva anche alle funzioni di bibliotecario ed in compagnia del cancelliere facente anche le funzioni di erario, non che del personale di servizio e di scorta.

Crebbero, all'aria libera, rigogliosi e belli come fiori alpestri; nessun contatto col mondo; nessuna visita, diversivo unico all'abituale solitudine, veniva offerto dal pellegrinaggio che, una volta all'anno, e precisamente nella prima domenica di maggio, la popolazione di Genzano faceva all'umile santuario di Monteserico, e dalla fiera che, in tal giorno, si celebrava sui quattro carri di terreno annessi alla cappella e di proprietà del santuario.

Il santuario


Poco distante dal ponte levatoio, definitivamente inchiodato sui pilastri di sostegno, sulla spianata del maniero, esisteva, ed esiste, una disadorna cappella nella quale, tutte le domeniche (3), un sacerdote dì Genzano si reca a celebrare la santa messa.

In fondo alla chiesetta, sull'unico altarino di pietra grezza, vi è un quadro raffigurante l'Annunziazione, pittura su tela di gran pregio (4).

La sacra immagine è adorata quale protettrice del vasto territorio.

In occasione del pellegrinaggio sopra nominato, il parroco di Genzano, dopo la celebrazione della messa ai piedi della miracolosa Madonnina, benedice la campagna e i pellegrini che, quasi tutti a piedi, si recano in processione al santuario distante circa tredici chilometri da Genzano.

I signori del castello offrono alle autorità ed ai rappresentanti del comitato organizzatore della festa, la dovuta ospitalità, ed ai pellegrini poveri, un'abbondante colazione sul vasto spiazzale della chiesa.

La bella contessina, seguendo una nobile tradizione, personalmente provvede alla distribuzione dei cibi, sotto l'occhio vigile della istitutrice.

Passa, come una fata generosa, la piccola castellana, tra la ciurma, famelica e cenciosa, formata dai giovanetti più poveri di Genzano.

Dopo la fiera, verso il tocco, la processione si ricompone e riparte al ritmo della tradizionale cantilena: Grazia-a, Madonne; grazia-a, Madonne. Il castello ricade nella sua abituale solitudine.


(1) Una vasta contrada del Monteserico porta ancora il nome di « Serpente »

(2) Veramente l'editto riguardava le manomissioni dei limiti delle proprietà e delle strade e venne abusivamente esteso ai danneggiamenti campestri in genere

(3) Ora una volta all'anno

(4) Misteriosamente scomparsa


      


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