Ettore Lorito - SOTTO L'ARCO DI EROS - PARTE SECONDA |
La vita nel castello
Il magnifico giardino, oltre il ponte levatoio e sottostante alla parte sinistra del castello, è un bosco di rose contrastante con la severità dell'ambiente; in giro, lungo i capaci viali, sotto artistici archi di piante sempre verdi, occhieggiano le marmoree statue profuse, con signorile buon gusto, dalle mani esperte della vecchia contessa.
Particolarmente bella è la « Fonte delle Sirene » circondata da piante che lasciano appena passare qualche raggio di sole, tanto spesse e ben disposte sono le verdi loro chiome.
Sullo sfondo del viale principale, una candida gradinata si stende, come una degradante terrazza, sino al sottostante vigneto.
Rodolfo e Clotilde siedono nella profumata Rotonda della « Fonte delle Sirene » e si specchiano nella limpida acqua che zampilla, silenziosa e fresca, dalle turgide poppe delle tre marmoree statue che danno il nome alla fonte.
Rodolfo, ormai diciassettenne, è più melanconico del solito e sfoglia, distrattamente, un libro, mentre il suo pensiero è molto ma molto lontano.
Clotilde, quindicenne, è piena di vita come un uccello in amore; non riesce a star ferma e si mette a svolazzare pel giardino; nel correre, pare che la semplicissima veste bianca voglia lasciarla nuda, tanto le mette in evidenza le braccia, il seno, i lombi; affascinante, per la grazia del suo flessuoso corpo ben tornito, a causa della precoce pubertà, non ha bisogno di sfarzoso abbigliamento.
Ha, però, l'aria di una innocente bimba, all'improvviso, coglie un mazzo di rose e, china dietro il fratello, le sfoglia, ridendo, sul capo, sul petto, sulle mani di lui. Ma Rodolfo non pare destarsi dai suo sogno di malinconia, allora la fanciulla, indispettita, si avvicina ai rosai e comincia a tempestarlo con una pioggia di rose sempre più forte, come si accanisce e si eccita nel suo giuoco.
Ben presto, il giovane è coperto di petali rossi, gialli, bianchi, ella lo stimola, lo provoca col suo giuoco e col suo riso e allora, Rodolfo, sente in lei la facile preda dei suoi giuochi infantili e si mette a rincorrerla per i viali fino a che non l'ha raggiunta sui primi scalini della gradinata, la stringe fra le braccia robuste e la bacia sulla bocca che ride.
Clotilde ha le vertigini; le pare come se i gradini si sprofondassero indefinitamente. - Lasciami, Rodolfo, soffoco - mormora la fanciulla mentre la pioggia di baci, non meno bella di quella delle rose, imporpora il viso della contessina.
Stanchi, anelanti, turbati da imprecise sensazioni, a volte piacevoli a volte dolorose, i giovani rimangono inchiodati sulla gradinata mentre gli ultimi raggi del sole che tramonta, indorano la bella coppia.
A rompere l'incanto e a richiamare Clotilde e Rodolfo alla realtà della vita, sullo sfondo del meraviglioso quadro, appare l'austera figura dell'anziana istitutrice per annunziare una novità che aveva messo in subbuglio il castello: il marchese don Xxxxxx, cognato della vecchia contessa, da qualche giorno a Genzano, annunziava, per la fine della settimana, una visita a Monteserico in compagnia dei due figliuoli, Elena e Gastone.
Madama Duperré invitò i giovani a rientrare nel castello perché evidentemente sudati e si era levata una fresca brezza che poteva arrecar loro del male, fu ubbidita senza alcuna osservazione, giacché l'autorità della istitutrice era illimitata e ben a ragione.
Da anni, adempiva alle sue mansioni con fedeltà, onore e giustificata severità nell'esclusivo interesse del casato.
Donna di elevata cultura e di severi costumi, veniva apprezzata e ubbidita da tutti, Il suo viso rubicondo, atteggiato a disgusto, lasciava indovinare un carattere autoritario, invano simulato sotto un sorriso pretenziosamente elegante, residuo di una bellezza da tempo svanita, alta, corpulenta, dal seno che sporgeva esageratamente in avanti, aveva la chioma grigia arricciata da una frangia di riccioli finti armonicamente situati sulla bella testa, era veramente imponente.
Gli ospiti del Castello
Per onorare, degnamente, la famiglia dell'illustre cognato, si lavorò notti e giorni e Clotilde dimenticò presto l'insolito turbamento causatole dalla pioggia di baci.
La contessina tempestò di domande la zia per avere notizie particolari intorno ai cuginetti, ma non poté essere accontentata, giacché la contessa non vedeva i nipoti da molti anni, forse dall'epoca della loro nascita:
Dalle poche notizie ricavate, con giustificata discrezione, dal corriere si seppe che la marchesina Elena era un capolavoro di grazia, di bellezza e di bontà tanto da essere ritenuta in Napoli, uno dei più preziosi fiori della gioventù blasonata.
L'arrivo
Il sole era, da tempo, apparso sull'orizzonte quando, nel giorno stabilito, la vedetta, collocata in cima al maschio del maniero, annunziò l'avvicinarsi della comitiva proveniente da Genzano.
Infatti, dopo circa venti minuti, l'allegro corteo si fermò innanzi al portale del castello.
La contessa, al braccio del nipote e, tenendo per mano la bella Clotilde, attendeva, nel mezzo della corte, per dare il benvenuto al cognato, ai nipoti ed agli altri della comitiva.
Dopo le presentazioni ed il cerimoniale di uso, gli ospiti furono introdotti nel gran salone di ricevimento che, in altri tempi, aveva ospitato i più famosi condottieri e conservava, ancora intatto, il piccolo trono tappezzato di giallo, eretto in occasione dell'ultima breve dimora (quattro giorni solamente) nel castello dell'imperatore Federico II, avvenuta il quattro ottobre dell'anno 1250 quando, venti giorni prima di morire, si recò a Castello del Monte e a Monteserico volle riposarsi.
La maestosità del panorama, l'austerità del luogo, costituivano una cornice superba in cui risaltava maggiormente, l'eccezionale bellezza della bruna Clotilde accanto all'avvenente Elena, dalla fluente chioma dorata.
Il marchesina Gastone, che pure aveva vissuto alla corte di Parma e aveva conosciuto le più seducenti dame del tempo, non riusciva a staccare gli occhi dalla cuginetta che, benché cresciuta in quella triste solitudine, aveva un fascino tutto speciale che lo turbò profondamente.
Il tumido labbro della fanciulla faceva pensare al fiore del melagrano, mentre, la regolarità delle fattezze, richiamava alla mente la madre degli dei e, l'eleganza della statura, ricordava la Diana cacciatrice.
Il conte Rodolfo, da parte sua, restò come abbagliato dalla luminosa bellezza e dalla grazia della marchesina Elena: gli pareva un angelo pronto a spiccare il volo per l'immensità dei cieli.
Inesperto, timido com'era, soffrì, in silenzio, le prime ferite di Cupido.
La marchesina era di una smagliante bellezza, la chioma bionda era ornata d'un grosso brillante, portava un abito candido molto aderente fermato, alla vita, da un rubino, abito che lasciava indovinare un meraviglioso corpo perfetto ma senza provocanti segni di studiata femminilità, aveva l'aria di una fanciulletta gaia, spensierata, felicissima.
Una partita di caccia
All'alba del giorno successivo all'arrivo degli ospiti, la campanella del castello suonò l'adunata ed i partecipanti alla partita di caccia si affollarono giù nella corte ove mugolavano, festanti, le mute dei cani tenuti a guinzaglio e scalpitavano, mordendo il freno, i generosi destrieri.
La comparsa della contessina, in abito di velluto azzurro e con un cappello piumato della medesima tinta, fu salutata da un lungo mormorio di ammirazione che toccò, profondamente, il cuore dell'innamorato marchesino.
Mai amazzone, per quanto dipinta da mano maestra, poté uguagliare la bellezza di Clotilde; la stessa Diana non avrebbe potuto reggere a confronto della a fata di Monteserico ».
La campanella squillò una seconda volta e la comitiva si slancio verso la vicina foresta, la contessina cavalcava tra il fratello e Gastone, ma partecipava, con garbo e discrezione, alla conversazione generale.
Per la sua indiscussa valentia, durante la battuta, le venne assegnato uno dei migliori posti e la nobile fanciulla seppe essere all'altezza dei compiti a lei affidati.
La partita continuava, da qualche ora, accanita e numerose vittime cadevano fulminate dai colpi precisi dei cacciatori, che gareggiavano in bravura.
Verso « Fontana Vetere » si seppe della presenza di alcuni lupi che, nel giorno precedente, avevano assalito, decimandole, due mandrie.
Il capo dei « Froci », consultatosi con i signori del castello, ne dispose la caccia, nella zona indicata distribuì
i cacciatori a semicerchio per chiudere, nel sottostante burrone, le belve che i cani avevano segnalato.
Collocò i migliori tiratori nei punti più elevati della parte chiusa del semicerchio, con l'ordine di non muoversi, di non parlare e di sparare solo nella direzione a ciascuno prescritta. Intanto, dalla parte aperta del cerchio, fece avanzare, sparando in aria e schiamazzando, il resto dei cacciatori, alcuni « froci » e tutti i cani.
Ad un tratto, proprio in fondo al burrone, un lupo tagliò la strada alla contessina che, con altri due giovani, si disponeva a passare alla parte opposta non sufficientemente guardata.
L'intrepida fanciulla non si perdette d'animo; fece fuoco, quasi senza mirare, ed il superbo animale cadde, con l a testa spaccata, nel rigagnolo che ivi scorreva.
Clotilde era appena riuscita a frenare lo scatto del suo impaurito cavallo quando, una seconda belva, dopo di aver sbranato il coraggioso cane che le contrastava il passo, si slanciò contro la fanciulla, ma venne gravemente ferita da un secondo colpo di carabina sparato dalla contessina.
La ferita inasprì maggiormente il lupo, che, stretto da ogni parte dai cani, azzannò più volte il cavallo di Clotilde, la povera bestia, impazzita pel dolore, tentò la fuga, ma andò a battere la testa contro il tronco di un albero e stramazzò al suolo imprigionando la gamba destra della cacciatrice.
Gastone, che aveva seguito sempre la cuginetta ed aveva assistito alla pericolosa scena, con un colpo della sua infallibile carabina fulminò l'inferocita belva nell'atto in cui stava per lanciarsi contro la caduta.
Pochi minuti dopo, mentre la muta dei cani si accaniva a dilaniare il moribondo lupo, Gastone piombò in fondo al burrone, liberò dal peso del cavallo la ragazza svenuta, la collocò sul proprio destriero e via, di corsa, verso il castello.
Durante il non breve percorso, Clotilde rinvenne e ringraziò il cuginetto, poi si assopì sul gagliardo petto del suo salvatore.
Gastone stringeva tra le braccia l'agognato tesoro e, mentre desiderava di giungere al più presto al castello, si augurava che quella corsa non finisse mai spesso il vento gli sbatteva sul viso la bruna chioma della ragazza e quelle carezze inaspettate gli riempivano di dolcezza il cuore e gli davano brividi da stordirlo.
Più volte ebbe la tentazione di posare un lieve bacio sulla pallida fronte dell'amata cuginetta, ma riuscì a dominare e vincere il tremendo impulso.
Giunti al castello, assicurarono Gastone che si trattava di una slogatura del piede destro, che la gamba era semplicemente scorticata e fortemente indolenzita e che la guarigione della contessina dipendeva, unicamente, da una settimana di riposo.
Gastone respirò a pieni polmoni e, religioso com'era, andò ad inginocchiarsi ai piedi della Madonnina di Monteserico per la preghiera di ringraziamento.
A sera, la contessina lo fece chiamare nella sua stanza - Grazie, marchesino, mi ha salvato la vita, - gli disse con le lacrime agli occhi, Gastone s'inchinò profondamente e baciò, con evidente commozione, la mano che gli porgeva l'ammalata.
La presenza della contessa zia e di Elena non gli permise che di rispondere con la solita frase: - Ho fatto solo il mio dovere!
Ben altro, però, dicevano i suoi occhi, Clotilde lo comprese benissimo e si propose di non incoraggiare un amore che poteva solo rendere infelice il bravo e generoso cuginetto, in altra direzione erano orientati i palpiti del suo cuore.
Passarono, come un sogno, i pochi giorni di permanenza al castello e, quando i cari ospiti presero commiato, diversi cuori erano stati colpiti dai fatali dardi di Eros.
La vecchia contessa ed il marchese sorridevano di compiacenza, accarezzando il sogno di un duplice imeneo.
Qualche settimana dopo la partenza degli ospiti, nella gran sala di convegno, echeggiò, argentea e sonora, una fresca risata e Clotilde consegnò alla zia una lettera pervenuta da Genzano del seguente tenore:
Contessina,
evidentemente i miei occhi Le parlarono di amore, l'incidente occorso e la conseguente malattia non mi permisero di esprimere, a viva voce, quello che il mio animo sentiva per la « fata di Monteserico » sì, l'amo e la farò felice, se avrò l'onore di essere messo alla non comune ed ambitissima pruova.
Il cuginetto
Marchesino Gastone di Xxxxxx
La zia attirò a se la ragazza, la carezzò e le parlo come una buona mamma.
- Clotilde, è tempo di pensare alla tua sistemazione; non puoi vivere sempre isolata dal mondo, con una vecchia che, tra non molto, si metterà in viaggio per non fare più ritorno, la tua giovinezza ti dà diritto a ben altro, la natura, che ti è stata larga di beni di ogni sorta, ti ha serbato un destino diverso dalla involontaria clausura nella quale sei cresciuta e costretta a vivere per... necessità, per fatalità di cose.
- Ma se sono felice! Se sto bene...
- Non dir di no; non impedire che il destino si compia come per tutte le fanciulle.
- Vedi... Gastone è un giovane che dà pieno affidamento; la sua educazione squisita, la sua bontà, il suo fisico, i suoi beni sono doti ben degne della tua attenzione, pensaci seriamente prima di decidere.
Clotilde non riesce a nascondere il suo turbamento, nè può opporre alcuna obbiezione alla reale situazione prospettatale dalla zia e ... dolcemente si sottrae alle più che materne carezze; poi, ottenutane licenza, va a rinchiudersi nel suo appartamento.
Per quel giorno non si fece più vedere e le venne servito il pranzo e la cena nella stanza, ove giaceva sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, ma senza dormire. A tarda sera, finalmente, decise il da farsi; si alzò e scrisse:
Signor marchesino,
la ringrazio dell'onore che mi fa, ma sono ancora troppo giovane per pensare ad una cosa tanto seria qual'é quella del matrimonio, forse non vorrò mai maritarmi.
Con ogni riguardo
La cuginetta
Contessina Clotilde dei Sancia
Consegnò la lettera aperta alla zia perché venisse data al corriere che doveva, all'alba, far ritorno a Genzano, poi più calma, ma sempre pensierosa, andò a letto.
Il sole non era ancora apparso sull'orizzonte quando la contessina si precipitò nella rimessa per la cavalcata mattutina, che fu più lunga del solito, il povero « froce » di scorta sudò non poco per tenerle dietro e non perderla di vista.
La cavalcata fu piuttosto una corsa, come una corsa sfrenata era il tumulto dei pensieri che agitava la mente ed il cuore della fanciulla.
Di ritorno al castello, verso la « Regina », s'imbatte in due « froci » che trascinavano, con le mani legate dietro la schiena, un giovinetta accusato di aver rubato un agnello, Clotilde ordinò che il colpevole venisse sciolto, accompagnato al castello e consegnato al cancelliere.
I « froci » che, da tempo, facevano giustizia in modo assai più semplice, rimasero sorpresi, ma dovettero obbedire.
L'accusato, per intercessione della contessina, al castello venne trattato, non come prigioniero, ma quale ospite, nonostante appartenesse alla famiglia dei Rucizze, nota per le sue gesta criminose, in tutte le rapine, le grassazioni, i danneggiamenti, i ricatti vi era la mano dei Rucizze e perciò essi erano da tutti temuti e sfuggiti.
Solo i « froci » davano loro una caccia spietata per quanto pericolosa, il loro odio verso l'infame famiglia era, però, ben giustificato, non molto tempo prima dell'arresto del giovinetto, era accaduto che il capo dei «froci», col pieno consenso degli uomini interessati, si era impegnato in tresche amorose con una immonda donna della famigerata famiglia appellata, per la sua bellezza, la « gemma di Monteserico » e, per qualche tempo, dovette chiudere gli occhi sulle loro gesta criminose.
Non appena il malcapitato don Fulgenzio accennò a voler riprendere la sua libertà d'azione, non fece più ritorno dal notturno convegno amoroso, né di lui si seppe più nulla.
L'aria fresca del mattino, il moto, l'aiuto prestato al giovinetto, a poco a poco, calmarono l'agitazione della contessina che rientrò al maniero tranquilla, sorridendo, anzi, del turbamento e dei pazzi pensieri, che l'avevano agitata.
Dopo il bagno, recando tra le braccia il gatto preferito, entrò nella sala ove Rodolfo suonava il piano.
- Fratello, mi sposo; e tu?
Il giovane, indispettito perché disturbato dalla sua prediletta ricreazione e perché vede scoperta una piaga che si sforzava di nascondere a se stesso, risponde con un gesto d'impazienza e continua a suonare senza nemmeno voltarsi, allora Clotilde si avvicina al piano, resta a guardare per qualche tempo, poi, ridendo, prende le zampine del gatto e le fa scorrere sui pochi tasti rimasti liberi dal suonatore, Rodolfo si alza per afferrarla, ma la fanciulla, abbandonato il gatto, fugge per la sala. si rincorrono intorno al tavolo fino a quando lei resta prigioniera nelle braccia del fratello.
La piccola lotta si conclude con la pioggia di baci che Clotilde si accanisce a stampare sulla bocca e sugli occhi di. Rodolfo, Infine, la contessina si distacca dal fratello completamente stordita, con un ronzio negli orecchi che non le consente di stare in piedi, vede la stanza girarle intorno vertiginosamente e si accascia su di un divano, col viso stretto tra le mani, Rodolfo ritorna al piano e, dopo pochi accordi melanconici, intona il minuetto preferito dalla sorella.
A mano a mano che le note si spandono per la sala, il volto della contessina si rasserena, la melodia le tocca il cuore, lentamente si solleva dal suo giaciglio, si accosta al fratello e lo bacia sulla testa, poi gli domanda:
- Ti piace Elena? La sua bellezza, veramente eccezionale, è pari alla sua bontà.
- Lasciami in pace... e pensa piuttosto al marchesino che ha preparato tutto per le nozze.
- Taci, Rodolfo, non mi tormentare; tu non sai quanto male mi cagionano le tue parole, io non amo, non voglio amare nessuno.
- E perché mai? Gastone, poi, è un perfetto gentiluomo, un partito ideale degno di qualsiasi nobile fanciulla.
- Lo so, Rodolfo, ma non insistere, perché mi arrechi, non volendo, dolore.
- Non ti capisco.
- Meglio così; dev'essere così, lasciami sola nel tormento che mi strazia il cuore e mi tortura la mente, è già troppo quello che soffro. Così dicendo si appoggia, per non cadere, sulla spalla del fratello in preda ad una violenta crisi di pianto.
Il grazioso corpo, infermo nelle fibre e nel sangue, si agita, sussulta e si attacca a quello di Rodolfo come ad una tavola di salvezza.
Il conte solleva la fanciulla e la va a posare sul letto della stanza di Clotilde, poi, socchiude le imposte della veranda, bacia sulla fronte la sorella e va via, profondamente impressionato per l'ignoto male che affligge la compagna dei suoi giuochi.
- Sei stanca, riposa e presto guarirai - le dice uscendo dalla stanza.
La malattia di Clotilde
Ma il male era più serio di quello che nel castello si riteneva, una febbre ostinata e frequenti scosse nervose, misero in serio pericolo la vita della contessina.
La malattia durò a lungo ed il medico, che si fece venire da Trani, non seppe mai individuare la vera natura del male che minava la giovane esistenza di Clotilde e la faceva sfiorire di giorno in giorno, nonostante le cure affettuose che tutti al castello le prodigavano.
La vecchia balia, particolarmente affezionata all'inferma, in una delle notti in cui l'ammalata non riusciva a prendere sonno, pian piano, le si avvicinò e, con tono umile, baciandole la mano, le disse sottovoce: - Mal d'amore, eccellenza mia, mal d'amore! Ma... io conosco a Genzano una maga capace di rendere all'eccellenza vostra illustrissima, con la felicità, anche la primitiva salute, è bene consultarla.
Clotilde mandò via la vecchia esclamando: « la felicità è una pericolosa illusione mentre il dolore è una crudele realtà », da quella notte, però, pensò sempre alla precisa diagnosi fatta dalla balia e, più ancora, allo strano rimedio propostole.
Sì, amava! Solo ora lo confessava a se stessa e aveva paura della fatale constatazione, amava pazzamente il fratello senza alcuna speranza; amava disperatamente e sentiva tutto l'orrore della sua passione, amava e si torturava l'animo, anche perché vedeva che Rodolfo era lontano dal sospettare in lei un sentimento così strano e tanto audace, avvolte, sentiva ripugnanza dei suoi pazzi sogni e giurava di mutar vita... ma non riusciva a distaccarsi da quel amore violento che turba, esalta e fa, dell'essere amato, quasi una divinità.
Col passar del tempo, si fece strada nel suo cervello in tumulto la forte volontà di guarire insieme al desiderio di consultare la famosa indovina, la distributrice clandestina di consigli, aiuti e filtri di felicità e d'amori.
Ossessionata da questo nuovo ordine di idee, la contessina si sforzò di uscire dal triste stato di abbattimento in cui si trovava, decise di guarire ad ogni costo, mutò completamente il tenore di vita, non rifiutò più le cure che il medico e la famiglia le prodigavano e, tanto meno, il cibo e le medicine. A poco a poco, la giovinezza trionfò sul malore al punto che, dopo pochi mesi, la bella contessina, benché non completamente ristabilita, si trovò in grado di poter simulare col fratello la vergognosa passione che le rodeva il cuore, e quando la sera Rodolfo le augurava la buona notte e, da buon fratello, le baciava la fronte, come nella prima infanzia, Clotilde chiudeva gli occhi per meglio assaporare quel bacio che aveva, per lei, tutte le attrattive tremende del frutto proibito, la fanciulla, anzi, aveva la forza di sorridere e di apparire calma
e serena, ma l'amore oramai, con la sua forza irresistibile, signoreggiava nel suo cuore.
- Tu sarai mio ad ogni costo - esclamò una sera sottovoce, mentre Rodolfo si chiudeva nel suo appartamento e, così dicendo, si abbandonò alle solite fantasticherie che, ormai, costituivano tutta la sua vita, si sentiva, in quella sera, il cuore gonfio di grande tenerezza e di sconforto profondo.
Coricandosi, fissò più a lungo il quadro che troneggiava sul caminetto della sua stanza e raffigurante un episodio del mito di Eros. il giovane iddio che camminava sui fiori, senza piegarli, per andare a sorprendere due amanti che si baciavano dietro il tronco di un albero, le pareva insolitamente animato.
Clotilde intendeva bene il gesto della donna che si comprimeva il petto per sedare i battiti del cuore e capiva, ancor meglio, l'audacia di quegli occhi.
A forza di fissare quelle figure, finì per vederle muoversi e di ravvisare se stessa nella donna colta in fallo, e confondendo il reale col fantastico, ebbe paura degli sguardi audaci del "satiro" che, nascosto tra i rami di un albero, la fissava sogghignando.
Si assopì, molto tardi, con la visione di quella scena, che ridestava, nel suo animo innamorato, strane voglie, mentre i profumi, lasciati dai capelli e dalle vesti di Rodolfo, l'avvolgevano come una dolce carezza.
Un giudizio al castello di Monteserico
Durante la malattia della contessina, ebbe luogo il giudizio contro il pastorello, era di domenica, la sala nella quale la castellana, per antica concessione, amministrava la bassa giustizia era collocata al pian terreno accanto all'alloggio dei « froci ».
Oramai si apriva raramente e, spesso, rimaneva chiusa per diversi anni consecutivi infatti si vedevano impolverati ed arrugginiti gli strumenti della tortura. alle ore dieci precise, la castellana entrò nella sala seguita dal cancelliere e dal capo dei « froci » che funzionava da giustiziere.
La settantenne contessa, era una donna di bella presenza e di salute florida, nonostante la sua età, la sua fisionomia ispirava fiducia ed il suo parlare dimostrava saggezza e bontà, la voce, sempre tranquilla, era carezzevole come una delicata melodia.
Si sussurrava al castello, che la nobil donna aveva molto sofferto, moltissimo pianto e scontato, con lunghi anni di lutto, di vedovanza e di volontario esilio, l'onore di aver brillato, come astro maggiore, nella corte di Francia.
Ritiratasi a Monteserico, dopo l'avvelenamento dell'unico figlio, attribuito agli intrighi della corte, aveva conservato sempre sentimenti puri e spirito di moderazione, e se, con l'età, aveva perduto il fiore della fresca bellezza, era ugualmente riuscita, per la sua bontà, ad accattivarsi le anime dei vassalli, dei terrazzani e di tutti gli umili del contado, come prima aveva innamorate quelle dei cortigiani e dello stesso sovrano.
Il cancelliere aveva l'aspetto di un grigio sagrestano, era un omicciattolo, apparentemente umile, ma d'indole feroce, il suo aspetto fisico era ributtante, il naso camuso, leggermente rivolto a sinistra, gli dava un aspetto mostruoso, specialmente perché il vecchietto era privo dell'occhio destro.
Portava, nei giorni di giudizio, un piccolo spadino col fodero d'argento in segno della sua carica, era oriundo di Spinazzola, apparteneva alla nobile famiglia V... ed era di una ferocia pari alla sua ignoranza e perciò da tutti temuto.
Introdotto nella sala l'imputato, il cancelliere, con la sua voce di decrepita cornacchia, lesse l'atto di accusa in cui era detto che « il pastorello era stato sorpreso a rubare un agnello e che perciò lo si riteneva responsabile di tutti i furti del genere, che da mesi, si consumavano in danno del castello e degli affittatari».
Il giovinetto affermò di aver rinvenuto l'agnello in un burrone e si protestò innocente nei riguardi dei reati attribuiti a lui, ma alla minaccia della tortura, fatta dal cancelliere, il malcapitato si dichiarò autore di tutti i furti consumati in quella zona ed anche di quelli non accertati e forse mai avvenuti.
In base alla estorta confessione dell'imputato, il cancelliere propose: « Un tratto di corda al giorno per una settimana; un mese di lavoro al castello, senza paga e a vitto ridotto, il pagamento di ducati dieci, per indennizzare i danneggiati e per le spese di giustizia ».
La contessa ridusse la pena alla metà, - Giustizia è fatta - esclamò il capo dei « froci » e invitò i presenti a sgomberare la sala, ma il padre di Florusio, dopo di aver ringraziato, in ginocchio, la contessa, con molt'abilità, fece scivolare, nelle mani del cancelliere, una moneta d'oro e la pena corporale non venne mai scontata, anzi, quella losca figura di cancelliere, finse di chiudere gli occhi sulla mancata espiazione della pena corporale, solo per non arrecare dispiaceri all'ammalata contessina che, in favore del giovinetto, era intervenuta.
II pastorello innamorato
Florusio, il piccolo pastore prigioniero del castello, veniva trattato come se fosse lì quale gradito ospite, per espresso volere della contessina, addetto alla persona del prigioniero era stata destinata la graziosa Catarinella, particolarmente cara alla giovane castellana dal giorno in cui, la nobile donzella, le aveva salvato la vita nelle acque del pantano.
La forosetta contava appena sedici anni ed era fresca come un bocciolo di rosa, non era troppo bella ma esercitava, sugli uomini, anche per la sua giovanissima età, un fascino speciale, brillante, mutevole, a volte, sconcertante, gli occhi di un verde chiaro, ombreggiati da foltissime ciglia nere, erano mobilissimi, pareva che volessero parlare, aveva i lineamenti della madre, figlia naturale di una gentil donna, un tempo ospite della vecchia castellana, e la vivacità del padre, già austero capitano di quella Corte, le mani ed i piedi piccolissimi tradivano la nobiltà della stirpe.
Educata da una zia zitellona ed ingenua come una fanciulla, vezzeggiata e tenuta all'oscuro delle vicende della vita, aveva la stessa timidezza della zia e la medesima ingenua bontà, si notava, nel carattere della giovinetta, la schietta vivacità di chi ha passato la vita all'aperto e non si è occupato di melanconici sentimenti e, tanto meno, di cultura.
La rustica bellezza del pastorello affidato alle sue cure, a poco a poco, si impose alla sua attenzione... e fiorì l'amore semplice e violento, proprio delle anime primitive.
Catarinella cercava di vedere il giovane, con ogni pretésto, e la notte, quando tutti dormivano, passava insieme all'amato Florusio le ore più belle della sua vita.
La sera che seguì la liberazione del pastorello, per aver scontato la pena, dei due giovani non si seppe più nulla e, invano, furono cercati dalle famiglie interessate, Eros aveva fatto strage dei loro cuori!
La contessina sorrise, compiacente, nell'apprendere la fuga dei suoi protetti e diede ordini che venissero lasciati in pace.
Sulla via del peccato
Lo stato di salute della contessina migliorava di giorno in giorno ma, nello stesso tempo, s'ingigantiva nel suo animo l'affetto morboso per Rodolfo.
Una notte in cui Clotilde non riusciva a prendere sonno, perché torturata, più del solito, dagli strali di Cupido (il tristo figlio di Venere che non risparmiò neppure la madre facendola innamorare pazzamente del giovane Adone), decise di accettare il consiglio della balia, tuttavia aveva paura, come se un grave pericolo incombesse sulla sua persona, sentiva che l'ignota minaccia s'ingigantiva di minuto in minuto, era certa di andare incontro alla perdizione, eppure vedeva una viva luce nella dannazione, per cui decise di osare.
Fece chiamare la vecchia e le disse: « Ho meditato sul vostro consiglio, se veramente conoscete qualche persona che, a guisa delle famose vecchie Tessale, sappia legare a me la persona agognata, desidero consultarla.
Dal momento che nessun medico riesce a guarirmi e nessuna persona sa lenire i miei dolori, procuratemi un colloquio con la vostra maga, se veramente mi volete un poco di bene e se desiderate evitare qualche atto fatale per me ».
- L'Eccellenza vostra sarà ubbidita; ma che cosa minaccia di fare?
- Se non riuscirò a domare il duro destino... dovrò scomparire! Le convenienze sociali, o meglio, le menzogne della civiltà, vogliono, ad ogni costo, uccidere il solo, il vero amore luminoso, disinteressato e, tale efferato delitto, rimane impunito.
Perché? Perchè non viene protetto, in alcun modo, il palpito del nostro cuore - Che vuole che sappia una povera vecchia ignorante? Penso solo che a tutto ci debba essere un rimedio e che non bisogna disperare...
- Allora non rimane che consultare la vostra maga e ... al più presto.
- Sarà servita nel miglior modo che mi sarà possibile e subito.
- Intanto voi, che da cinquant'anni prestate servizio nella nostra famiglia... ditemi qualche cosa dei miei genitori, già di mia madre, per esempio, che nessuno nomina mai, che nessuno ricorda.
- Eccellenza, nulla conosco, tutti sono stati signori magnanimi e generosi e da noi adorati.
- Ma... mia madre, dico, come, quando, dove morì? Qual male la rapi all'affetto del povero babbo mio? La vecchia impallidì, indi si gettò in ginocchio e, baciando le vesti della contessina, sussurrò:
- Mal d'amore, mal d'amore la fece scomparire con l'illustrissimo signor nipote e il babbo... morì di crepacuore!
Per qualche tempo, si intese il singhiozzare della balia ed il pianto sommesso della contessina, Il male era veramente nel sangue dei componenti quell'illustre casato.
Rimasta sola, la contessina cercò di spiegarsi come mai lei.., fanciulla pura, sia potuta giungere a concepire pensieri torbidi, si disse: forse aleggia intorno a me l'anima della dissoluta regina Giovanna che profanò questi luoghi, sino al punto, di rendere sterile il terreno che calpestava.
Evidentemente la maledizione del Cielo, che gravò su questi luoghi insozzati, era sì truce che qualche vestigio temibile sia rimasto nella polvere calpestata dalla leggendaria sovrana, dalla «fiamma impura che tutto bruciava», come ora brucia l'anima mia, si vede che sono anch'io bacata nell'anima, così, fantasticando e tormentandosi, si assopì.
La contessina Clotilde e la balia lavorarono, non poco, a fabbricare progetti per consultare l'indovina di Genzano all'insaputa di tutti, l'impresa si presentava ardua sotto ogni punto di vista. Già si disperava della riuscita, quando giunse al castello un « criato » (1) del marchese di Genzano, don Xxxx, recante una lettera con la quale s'invitava la cugina ed i nipoti a visitare il paese in occasione delle feste patronali, in onore di Maria SS. delle Grazie, che si sarebbero celebrate il due luglio.
La zia e i nipoti, per differenti motivi, decisero di accettare l'invito, ed assicurarono il marchese, che sarebbero arrivati a Genzano verso il tramonto del giorno trenta giugno.
Il febbrile lavoro per i preparativi della gita, rasserenò sensibilmente l'animo di Clotilde e contribuì alla sua completa guarigione, tuttavia, la notte precedente al dì fissato per la partenza, la fanciulla non riuscì a chiudere occhio, il pensiero del passo che stava per tentare, la spaventava... ma era decisa a compierlo.
Per ingannare il tempo, che scorreva, per lei, con esasperante lentezza, si recò nella biblioteca e prese a consultare, fra i manoscritti, quello che parlava di Genzano.
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(1) Dipendente, servitore infimo di un grande casato.