GIUSEPPE PEDOTA

POESIA E SAGGISTICA


IN LIMINE - di Luigi Amendola

Io venni in luogo d'ogni luce muto (E. Pound, "Cantos" XIV, I)

Se l'arte è scintilla e la vita l'esplosivo, bisogna dire che non tutti gli artisti diventano dinamitardi. Caravaggio, Kandinskij e Van Gogh sicuramente lo erano.

Un segno di inquieta vitalità attraversa la loro opera e la loro resistenza: l'ansia creativa si sovrappone ad un vissuto originale, estroso, in limine. Così Giuseppe Pedota, esattamente così.

Lucano di origini, ma approdato a Roma, dopo la frequentazioni, negli anni cinquanta, dei movimenti artistici parigini, e la conoscenza di Sartre, Pedota incarna

un'irrequietezza esistenziale che attinge ad un sicuro talento, nutrito di buone letture ed interessi d'astrofisica. L'aspetto più evidente sono le sue "bizze", una sorta di irriverenza, di solipsismo artistico che lo hanno condotto ad una maturazione solitaria, protetta, quasi sconosciuta. Temperata da una solarità ed empatia mediterranea.

In ambito estetico, tutto questo si traduce in segni, curve, forme che non hanno una vocazione figurativa, anzi l'accennano e la fuggono continuamente. L'elastico della ricerca artistica. Quello che colpisce del suo lavoro è, anzitutto, il tratto, l'illusione ottica di uno spazio che non ha confini e rimanda continuamente ad altri luoghi (interni), altre galassie. L'immagine siderale e cosmica è una costante evocata in ogni opera; basta osservare la prospettiva d'insieme, il movimento ellittico dei soggetti, il dinamismo. Una cifra stilistica personalissima che traccia la mappa di un immaginario e fertile affatto convenzionale. Solo a questo punto ci si accorge del colore: "Io venni in luogo d'ogni luce muto"

Come nei versi di Ezra Pound, nell'opera di Pedota esplode la consapevolezza di abitare in un mondo silenzioso, in penombra, asettico. Attingere, di volta in volta, ai colori caldi della sua memoria ed a quelli freddi del cosmo, permette all'artista di rinnovare questa consapevolezza e trasformarla creativamente.

Non c'è compiacimento o narcisismo pittorico nelle scelte cromatiche di Pedota, c'è, semmai, l'urgenza di affermare che l'armonia è nel molteplice, nella proposizione del chiaroscuro, sole-notte, l'androgino, l'indefinito, Yin e Yang, direbbero dei pensatori orientali. L'equilibrio si comporrà nell'immaginario di chi osserva, come se il quadro offrisse una parte finita ed una incompiuta che dovrà chiudersi nel fruitore stesso (se saprà lasciarsi prendere dal viaggio delle intenzioni dell'opera).

Tutte questo processo appare, però, nella sua immediatezza esecutiva come se il gesto fosse rapido, mercuriale, mentre invece è il punto di arrivo di una serie di aggiustamenti ottimali. Uno scopo raggiunto attraverso la costruzione di una intelaiatura invisibile che scompare dietro il prodotto finito. Solo chi riuscirà a calarsi nelle forme inquiete di Pedota, potrà assorbire queste sensazioni. Ma la scommessa vale: in palio c'è la scoperta di un'artista vero che non concede nulla alle mode, alle correnti, dell'omologazione.

Luigi Amendola 1992

 


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