GIUSEPPE PEDOTA

POESIA E SAGGISTICA


REALISMO SIDEREO E IRREALISMO IPPOGRIFICO -  Donata De Bartolomeo

"Realismo sidereo" e "irrealismo ippogrifico" sono le formule antinomiche con le quali si è tentato di cogliere il centro della pittura di Giuseppe Pedota; senonché, paradossalmente, è proprio l'antinomicità delle due categorie a contrassegnare la dinamica polimorficità della sua arte.

"Realismo utopico" può apparire una formula paradossale, se non fosse anch'essa imperfetta e lacunosa. 

"Utopia", letteralmente "non-luogo", è sostantivazione di un non-ente; per contro, "realismo" designerebbe la rappresentazione verificabile e verosimile di un ente. Traendo da queste premesse le debite conseguenze logiche, la definizione di "realismo utopico", che noi abbiamo scelto per designare l'opera di Giuseppe Pedota, consentirebbe il collegamento conflittuale di ciò che non è risolubile nell'ambito dell'ordito logico-filosofico: l'irrisolubile antinomia della dissonanza che penetra la densità semantica di questa pittura. Se la vera arte è trasposizione del non-dicibile (leggi, non-luogo) nell'ambito del dicibile (leggi realismo), non meraviglia che l'essenza di questa pittura risieda nell'ampliamento a dismisura della misura del mondo, e quindi d'un realismo integrale. L'irrealismo galattico di Pedota sarebbe quindi la formula estetica d'un realismo più vero perché insondabilmente più irreale. I concetti di "reale" e "irreale" vengono a perdere così la loro incomunicabilità semantica per restituirci alla loro perfetta belligeranza ontologica.

Il discorso di Pedota parlerebbe, in altri termini, la lingua della profezia, la lingua della prossimità al futuro come direzione verso il reale.

Pedota restituisce così alla pittura quella dimensione ontologica (depurata dell'élan vital che per lungo tempo era stata bandita dalla storia delle arti figurative, proprio quando il reale viene a confezionarsi nella dimensione del "simulacro" ed il non-reale viene costipato nella dimensione del "non-luogo".

La pittura di Pedota non designa spazi ma si muove motu proprio verso il molteplice sincronismo degli iperspazi. Le "città stellari", gli "ipermondi galattici", i sorprendenti "pianeti spenti" nel fluido galattico, designano un futuro non più futuribile, un futuro arcaico dove l'umanità, con la sua storia e i suoi olocausti, è scomparsa senza lasciare impronta.

La "metafora cinetica" della poesia di Pedota è il corrispondente speculare della campitura materica della sua pittura: un iperspazio disseminato di energia allo stato puro. La pittura di Pedota non è una figura metafisica dal reale ma una ricerca metafisica del reale; sbaglia chi la riconduce entro gli asfittici parametri di formule inclementi à la page, sideralmente lontana dall'arte concettuale o dagli astrattismi di maniera, come da tutte le idosincrasie dei ready made replicati fino all'orrore, questa pittura medita sull'inizio, sull'apeiron della materia con la noncurante eleganza d'un filosofo presocratico.

Le leggi della materia e dell'energia non possono essere qualitativamente diverse dalle leggi dell'antimateria, deve esistere un principio primo che tutto unifica, ed infiniti mutamenti, infiniti clinamen che tutto dissemina in una apparentemente dissennata entropia. La pittura di Pedota diviene così una meditazione artistica sull'origine degli universi e sulla disseminazione di energia. 

La Cosmogonia si tramuta in Teogonia: Gaia ed Urano (terra e cielo), così come Adamo ed Eva, si toccano con un dito ed inizia la "vita": uno degli innumerevoli "vestiti" dell'energia. Così come "Eva esce dalla notte" e "L'uccello di fuoco" emettono un grido sovranamente "bello", l'attimo si arresta, miracolosamente l'apeiron arresta il suo moto perpetuo. L'arte metafisica di Pedota, che ha conosciuto l'ipotenusa del male, tende ad infirmare la temporalità naturale per opporle la clessidra di un tempo inaspettatamente sovversivo.

Le campiture cromatiche e timbriche della pittura di Pedota introducono l'erotismo di un tempo post-inerziale, ove la quiete è stata scissa e lacerata per sempre dall'irrompere devastante dell'oceano del mutamento. Non si comprende nulla delle linee-forza e dei vortici di questa pittura se la si riduce a semplice manierismo iperbolico o astratto barocchismo. Qui il barocco non c'entra affatto. Unico ed anomalo, Pedota è andato incontro al suo tempo come un perfetto estraneo, come un marziano capitato per caso dentro la pittura contemporanea.

Ad un tempo mago, pittore, scultore e poeta, Pedota si è posto dinanzi alla propria epoca con la cosciente negligenza di chi sapeva in anticipo di essere inguaribilmente fuori del proprio tempo. La ricerca d'una propria temporalità e, con tutta probabilità, il salvagente che l'artista si costruisce per attraversare indenne il proprio tempo, Pedota ha utilizzato la propria arte come una seconda epidermide, come un sommozzatore utilizza il proprio equipaggiamento.

Resistere alla propria epoca per sondarne le equoree profondità: era questo l'imperativo di Pedota sin da quando, giovanissimo, partì da Genzano di Lucania. Un percorso solitario e drammatico, come è drammatica ogni ricerca autentica.

Donata De Bartolomeo

 


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